L'intimo e conflittuale rapporto di due sorelle viene analizzato mentre il pianeta Melancholia è prossimo alla collisione con la Terra.
L'intimo e conflittuale rapporto di due sorelle viene analizzato mentre il pianeta Melancholia è prossimo alla collisione con la Terra.
Melancholia è il secondo capitolo della così detta “Trilogia della Depressione” di Lars von Trier, che si apre con l'angosciante Antichrist (2009) e si chiude con il controverso Nymphomaniac (2013). Nel mezzo, il film che affronta nel modo forse più concreto la depressione, una patologia drammatica e ineluttabile, proprio come l'incombenza di Melancholia sulla Terra. Non è un mistero che il regista abbia ideato la pellicola nel corso di una seduta psicoterapeutica a cui partecipò durante il trattamento del suo disturbo depressivo e in cui apprese che, in presenza di eventi tragici, le persone depresse tendono ad agire con molta più calma rispetto agli altri, in quanto sono solite attendersi continuamente momenti spiacevoli.
Di qui, l'idea di un film apocalittico, incentrato sulla psiche di personaggi estremamente diversi tra loro, che reagiscono in modo diverso dinanzi alla catastrofe; ecco allora come lo spettatore, che grazie al geniale prologo rivelatore sa già come andrà a finire, può concentrarsi sulle azioni di ciascun protagonista: John, uomo studioso e razionale, si dimostra calmo ed entusiasta quando tutto procede secondo le sue previsioni, salvo poi arrivare addirittura al suicidio quando si rende conto dell'errore; Claire, persona comune, come tante, comprensibilmente spaventata, si affida a chi ne sa più di lei, ascoltando tuttavia solo la tesi che più la rassicura (non è un caso che si fidi delle confortevoli parole di John e non della nichilista visione di Justine, la quale pure dimostra di “sapere le cose”, indovinando ad esempio il numero di fagioli contenuti nella bottiglia del suo matrimonio). Esattamente come gli animali, una volta avvertito il pericolo, Claire si sbizzarisce, provando invano a fuggire e rassegnandosi solo quando non le resta altra scelta. Infine Justine, su cui von Trier proietta la sua personalità depressa, è l'unica che si mantiene costantemente lucida, accettando rassegnata il triste epilogo. È lei l'unica in grado di rassicurare il piccolo Leo, mediante la costruzione di una “grotta magica”, che fuor di metafora sembra quasi segnare un volontario e rassicurante ritorno dell'essere umano nella caverna platonica da cui secoli prima era finalmente uscito. Avendo visto da vicino la realtà del mondo nella sua veste più cruda e tragica, ecco come le ombre della caverna, per quanto fittizie, risultino in fondo sicure e confortanti. Meglio dunque provare a rintanarsi lì, nell'ultimo rifugio ancora disponibile, a cui John, affamato di scienza e verità, non avrebbe mai potuto pensare per tranquillizzare suo figlio.
Al di là dei suoi connotati semantici, Melancholia risulta un'opera esteticamente sublime, nel senso strettamente burkiano del termine.
Nel 1757, il britannico Edmund Burke (precursore del Romanticismo inglese) pubblicò Indagine sulle nostre idee di sublime e di bello, dove giunse a sostenere la netta superiorità del primo sul secondo (teoria fortunata, successivamente ripresa e approfondita da Kant e Schopenhauer). In breve, mentre il Bello origina da tutto ciò che produce un effetto di profonda armonia, il Sublime consiste in un fascino intrinsecamente legato al terrore, tanto più terribile se a sua volta legato alla morte. Affinché il terrore risulti sublime e non diventi una mera paura, è però necessario che non venga provato in prima persona, ma solo a distanza, quando si è al sicuro. Ebbene, da questa breve definizione, emerge con chiarezza come agli occhi dello spettatore (che vive da esterno le tragiche esperienze dei protagonisti) la bellezza visiva del pianeta in avvicinamento, combinata con l'ineluttabile consapevolezza dell'imminente fine del mondo, suscita esattamente la sensazione del Sublime burkiano. Non sono dunque un caso né i vari riferimenti all'Ophelia di Millais (pittore del tardo Romanticismo), né il preludio wagneriano del Tristano e Isotta, opera romantica per eccellenza, scelta come colonna sonora portante del film, che si sposa magnificamente con le tragiche vicende narrate.
Ad accrescere il fascino della pellicola, contribuiscono anche una fotografia esemplare, abbinata ad una regia perfetta nella sua semplicità. Come nella maggior parte dei suoi lungometraggi (Le Onde del Destino, 1996), anche in Melancholia Von Trier fa largo uso di riprese ottenute con macchina a mano, soprattutto in fase di campo e controcampo, catapultando lo spettatore nelle scene più dialogate. Nel mostrare la fine del mondo però, allo scopo di favorire la sensazione di Sublime di cui si è già detto, il regista preferisce impiegare maggiormente la macchina fissa, allontanando il pubblico dalla tragedia e consentendogli una visione più distaccata e rassicurante.
Da sottolineare le prove attoriali delle due indiscusse protagoniste, Kristen Dunst e Charlotte Gainsbourg. La prima (miglior attrice a Cannes 2011) riesce magistralmente ad impersonare la depressione (patologia di cui ha realmente sofferto), mostrandone ogni sfaccettatura sia nelle scene del matrimonio, sia in quelle finali; la seconda, presente in ogni pellicola della trilogia di von Trier, ricopre qui un ruolo meno centrale e psicologicamente meno pesante rispetto a quelli ricoperti in Antichrist e Nymphomaniac, ma comunque difficilissimo da interpretare. Il suo personaggio risulta estremamente mutevole, dovendo essere al contempo nervoso, paziente, comprensivo, timoroso, fiducioso, in preda al panico, devastato. La Gainsbourg riesce nell'impresa, meritandosi così la conferma nel capitolo finale della difficile trilogia.
Per tutte le ragioni sin qui esposte, è dunque possibile definire Melancholia come un capolavoro di forma e di contenuto. Un'opera tragica, semanticamente importante ed esteticamente sublime, che rende Lars von Trier un cineasta romantico, nel senso più strettamente artistico del termine.
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