Nella campagna coreana del 1986, una squadra di litigiosi e improbabili detective indaga su una serie di omicidi.
Nella campagna coreana del 1986, una squadra di litigiosi e improbabili detective indaga su una serie di omicidi.
Bong Joon-ho (Snowpiercer, 2013; Okja, 2017), probabilmente fra gli autori coreani fra i più aperti alle influenze e agli spunti occidentali, prende come riferimento un genere narrativo ben fissato nei propri canoni, il noir. Se Parasite (2019) sembra rifarsi alla Commedia dell'arte, con l'opposizione almeno iniziale fra i poveri Arlecchino e i ricchi Pantalone e il gioco di scambi identitari ed equivoci in accumulo, qui sono gli elementi della crime story a dominare: la ricerca di indizi, il topos del paese periferico e i più che classici chiasmi fra poliziotto buono e cattivo, detective e assistente. Tuttavia, la declinazione di tali stilemi è tutt'altro che scontata. In primis, Memorie di un assassino è un giallo senza risoluzione: un finale proprio non della giallistica classica ma di quella più introspettiva e filosofica. Bong Joon-ho sembra condividere con Friedrich Dürrenmatt (La promessa, 1958) una visione pessimistica della natura umana e del suo straziante e paradossale rapporto con una verità irraggiungibile. In secondo luogo, originale e non secondaria è l'ambientazione nella misera campagna di un paese attraversato da contraddizioni: il villaggio dei delitti, rappresentato con taglio quasi neorealistico, è un luogo abbandonato dalla giustizia, abitato da esseri umani devastati e solitari e retto da un'autorità poliziesca incapace, corrotta e violenta. Il discorso sociale, per quanto meno centrale rispetto a Parasite, conferisce al film in questione un'atmosfera di desolante realismo, legato a doppio filo con il ritratto psicologico controverso dei personaggi.
A questo proposito, la sceneggiatura scritta assieme a Kim Kwang-lim e Shimizu Shung-bo si esprime al meglio proprio nella descrizione degli archi narrativi paralleli della coppia di detective protagonisti. Novelli Philip Marlowe e Sherlock Holmes, i due partono da personalità opposte e conflittuali, fino a collaborare e invertirsi di ruolo, decretando la sconfitta morale di uno e la rassegnazione dell'altro. Supportati da ottimi interpreti (le uniche due prove davvero memorabili del film), i personaggi principali sono attorniati da pittoresche spalle, ora desolanti ora comiche, e da situazioni sempre giocate sul filo del paradosso e dell'inganno. Se gli sviluppi della vicenda investigativa, intuibili fin dall'inizio, sono arricchiti dell'elemento caotico della fatalità (che impedisce lo svolgersi delle indagini, contro il debole volere umano), è notevole l'inserimento di numerosi elementi da farsa all'interno della sceneggiatura.
Il riso che scaturisce dal film è amaro e disperato: fra litigi continui sul nulla e mosse tanto maldestre da risultare ridicole, si ride letteralmente alle spalle del morto.
La regia si fa notare per svariati, eleganti, movimenti di macchina. Certamente non si ha la tendenza barocca e ipertrofica di un Park Chan-wook (il coevo Oldboy), ma la maestria di Bong Joon-ho si nota sopratuttto nella direzione degli attori: le scene degli interrogatori, seguite con brevi e precisi long-take, si alternano ai quadri dove la posizione dei personaggi risulta accurata. Il detective Seo, dapprima sempre isolato o in secondo piano, viene, in conseguenza del proprio sviluppo psicologico, sempre più incluso in inquadrature con più attori, nessuno dei quali va ad impallare gli altri. Per un film con molteplici scene collettive è fondamentale valorizzare tutti gli elementi in campo: al dinamismo la cinepresa predilige un interessante uso della profondità di campo, ben visibile nelle scene nell'ufficio della polizia. Efficaci anche le sequenze più tensionali, dove anche il montaggio di Kim Sun-min dà il proprio meglio: altrove, si mantiene invece a un livello medio.
La fotografia di Kim Hyung-ku, in linea con il carattere pessimista della storia, si esprime prevalentemente in toni lividi e bui, quasi a voler sottolineare anche lo squallore sociale delle ambientazioni. A sancire il passaggio temporale finale, in modo opportuno, i colori si fanno più chiari nell'ultima scena. Si ha quindi un uso espressivo dato per sottrazione della palette cromatica, che purtroppo non trova corrispettivo nel montaggio sonoro, unica pecca del film in quanto spesso approssimativo. Per il fruitore italiano dell'opera, inoltre, bisogna sottolineare un lavoro di doppiaggio monocorde e banalizzante (difetto troppe volte riscontrato in molte trasposizioni dal cinema orientale): il che va a scapito delle interpretazioni e della resa dei personaggi originale. Stante ciò, Memorie di un assassino già lascia intravedere il percorso, tecnico e artistico, di Bong Joon-ho: un lavoro forse ancora prodromico ma in grado, se non superare, almeno di accompagnare l'ultimo e celebrato lavoro del regista del 2019.
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