Dani (Florence Pugh), studentessa di psicologia americana, ha appena subito un trauma immane: la sorella, affetta da gravi disturbi comportamentali, ha ucciso entrambi i genitori e si è suicidata. Nemmeno il suo ragazzo, Christian (Jack Reynor), sembra esserle di conforto, tanto da malcelare disappunto quando lei decide di aggregarsi a una vacanza organizzata con i suoi amici. La meta è la comune pagana di Hårga, in Svezia, patria di un ragazzo del gruppo, Pelle (Vilhelm Blomgran): questi ha invitato i colleghi a conoscere le usanze del luogo in quanto tutti studenti di antropologia. Il periodo è peraltro ottimale: proprio in quei giorni vi si svolge una festa ancestrale che cade una sola volta ogni novant'anni.
Lungo il tragitto i cinque – oltre ai summenzionati, Mark (Will Poulter) e Josh (William Harper) – conoscono un'altra coppia di ospiti stranieri, Simon (Archie Madekwe) e Connie (Ellora Torchia), e fanno uso di droghe allucinogene che causano a Dani un bad trip legato ai propri trascorsi.
La comunità natia di Pelle si presenta dapprima come un vero paradiso bucolico, dedito alla condivisione di tradizioni e alla vita pacifica.
Gli ospiti restano affascinati dalle cerimonie scandite secondo il tempo delle stagioni, dalla simbologia degli edifici e dai numerosi dipinti parietali che raccontano leggende e usanze.
L'idillio tuttavia termina quando, al termine di un banchetto, due anziani si gettano da una rupe incitati dalle preghiere canore dei propri compaesani:
ai forestieri viene spiegato che si tratta di un rito in armonia con il ciclo naturale, che sempre muore e si rinnova, ma ciò non convince Simon e Connie che decidono di andarsene. I due scompaiono di lì a poco in circostanze non chiarite, destando il timore degli americani.
Questi decidono tuttavia di restare, perché Josh intende svolgere la propria tesi sulle usanze di Hårga. I dissapori nel gruppo aumentano: Dani è sempre più soggetta ad incubi e teme per la fedeltà di Christian, che si scopre corteggiato da una giovane vergine del luogo; Mark, insofferente verso i costumi della comunità, scompare; Josh litiga con Christian, che vuole copiargli l'argomento dello studio, e scompare a sua volta mentre cerca di violare il testo sacro della comunità, scritto in alfabeto runico secondo gli oracoli di un ragazzo deforme prodotto, a detta degli anziani, da voluti esperimenti di endogamia.
Mentre la comune si disvela sempre più attraversata da segreti, le strade di Chris e Dani si dividono. Il primo viene indotto a consumare un rapporto sessuale con la vergine, durante un rito sacro dal sentore orgiastico; la seconda, al termine di un'estenuante quanto indemoniata gara di ballo, viene incoronata regina della primavera. Sta a lei decidere la nona vittima sacrificale da ardere viva in onore al dio solare: una fine che spetta ad un paio di volontari della comunità e ai suoi amici che si scoprono barbaramente trucidati. Fra questi, Mark completamente scuoiato e Simon trucidato e privato dei propri organi interni. Dani sceglie proprio il fidanzato verso cui provava un attaccamento mai ricambiato: vestito di una carcassa d'orso bruno, il ragazzo viene così bruciato sotto gli occhi di Dani, il cui volto viene attraversato da un sorriso inquietante e liberatorio.
Midsommar si inserisce in quella che si potrebbe definire una vera e propria horror renaissance: il genere di evasione per eccellenza, specie negli ultimi tempi, è stato infatti oggetto di rivisitazioni dai tratti fortemente autoriali (qui potete trovare le nostre recensioni sui recenti Noi e Suspiria). Ari Aster è al suo secondo lungometraggio, dopo Hereditary – Le radici del Male (2018), dove già si percepiva un approccio molto differente verso l'horror rispetto a quello a cui lo spettatore era abituato; le leggi dell'orrore, i dogmi e le regole del genere vengono ribaltate. Soprattutto, accanto alla narrazione propriamente detta, vi si trova una ricorrenza di tematiche fortemente personali. In Midsommar, come in Hereditary, il tema del lutto e della perdita costituisce il motore che dà avvio al racconto e alla discesa nella follia psicotica umana. Se nel secondo la perdita di una figlia dava il via all'isteria demoniaca di una madre, nel primo la tragedia comincia con il lutto di un intero nucleo familiare in una notte gelida d'inverno; una notte gelida che da quel momento straziante può solo riscaldarsi sotto la luce della primavera alle porte, come in un cerchio destinato, prima o poi, a sbocciare per poi richiudersi.
In entrambe le pellicole Ari Aster ci porta con violenza e cinismo nella psiche umana, mostrandoci le varie possibilità di elaborazione di un lutto e, nel caso di Midsommar, anche della rottura di un rapporto tossico-anaffettivo destinato a spegnersi tra quelle fiamme che nel cuore dei due protagonisti non divampano più. In Hereditary l'orrore è indagato sotto forma di culto satanico-religioso; il tema del culto persiste anche in Midsommar ma si sviluppa tramite il folklore di una comunità che percepisce in modo differente la vita e la cultura, ciò che è moralmente corretto e ciò che è tabù, ciò che è bene e ciò che è male.
La ritualità di questa società pagana è tanto purificante per chi ne fa parte quanto disturbante per gli estranei che assistono impotenti dinanzi alla follia etica-morale dei partecipanti.
I protagonisti americani del film, non a caso, sono studenti di antropologia: il primo grado di diversità (elemento chiave del genere horror) che si incontra è proprio quello etnico.
Il destino degli ospiti è ben chiaro se si presta attenzione alla simbologia e ai disegni che li circondano costantemente prefigurando torture, terribili afflizioni, sacrifici umani e crudeltà che da li a poco colpiranno i visitatori ignari di essere solo strumenti sacrificali in un disegno più ampio di quello che appare, impossibile da comprendere per dei ventenni occidentali di oggi. Midsommar in questo senso è una discesa nel cuore di tenebra della ritualità atavica, che mostra curiose connessioni con la società moderna: in ogni horror che si rispetti, dopotutto, la vittima finisce sempre per riconoscersi con il mostro. I richiami ora alle sette sataniche new age, ora all'eugenetica nazista, sono più che evidenti. Nei riti viene meno una comunicazione verbale che viene sostituita dalla sacralità del momento, dal respiro e sospiro sostenuto della colonna sonora dei Haxan Cloax, cristallina e quasi paradisiaca, in armonia con i paesaggi ma in netto contrasto con le aberranti situazioni e le deliranti e le allucinazioni distorte che trasformano il film in un'esperienza sensoriale e percettiva.
Oltre a quello antropologico, è il tema del lutto l'altra chiave di volta del film. Come in Hereditary, entro l'epilogo di Midsommar la protagonista attraversa diverse fasi di elaborazione degli eventi arrivando, infine, all'accettazione, all'abbandono di sé stessa come individuo unico e solo per far parte di una famiglia che può offrirle ciò che lei ha sempre cercato: empatia e comprensione. Dopo aver toccato il fondo ed essersi liberata di quella passività che di lei faceva parte, può solo tornare in superficie e respirare di nuovo in una ascesa verso la rivincita ed emancipazione.
Mai più da sola, accenna un sorriso tra vita, morte, libertà e rinascita. Quanto poi tale sorriso sia chiarificatore, è tutto da vedere: la comunità è sempre descritta sul filo delle ambiguità. Il loro stile di vita, atavico e sacrificale, apparentemente sereno ma così carico di ombre, è migliore o peggiore di quello occidentale, fatto di finti rapporti, alienazione, mancata comunicazione?
Da tale analisi risulta evidente l'approccio autoriale, appunto, alla materia. Aster si autolegittima inserendosi in quattro filoni distinti: in primis quello mistico in stile La montagna sacra (1973) di Alejandro Jodorowsky, con l'attenzione maniacale nel descrivere riti e simbologie. In secondo luogo, quello della diversità corporale: il personaggio del disabile non può non rimandare al capostipite dei corpi alieni cinematografici, Freaks (1932) di Tod Browning. Successivamente, quello della natura inquietante e consolatrice al tempo stesso: citare David Lynch è quasi scontato, ma è impossibile non farvi un rimando. Infine, quello della regia barocca e prevalentemente basata sul disorientamento percettivo: il punto di forza del film è infatti costituito da alcune ardite scelte di ripresa che rendono gli effetti allucinogeni delle droghe e del lutto stesso. Fra le più notevoli, l'ellissi che porta Dani dal proprio bagno di casa a quello dell'aereo e i fluidi piani sequenza che seguono la vettura dei protagonisti fino a ribaltarsi di 180 gradi. C'è qualcosa di Climax (2019) di Gaspar Noé, opera passata quasi in sordina in Italia e che sta al limite fra narrazione e video-clip. Aster ha talento, e tuttavia si ha l'impressione che a volte i suoi esercizi di stile vogliano prendere il posto della fruibilità del film: lodevoli la persistenza della luce diurna e l'assenza di jump scare, ma alcuni raccordi di montaggio (a cura di Lucian Jonson) sullo stesso asse, più che risultare disturbanti, sembrano semplicemente di troppo. I campi lunghi si alternano a plongée di grande impatto visivo, ma l'insistenza su alcuni particolari trucidi dei cadaveri appare più un pretesto per accontentare i fan dello splatter.
Stessa sorte tocca alla fotografia di Pawel Pogorzelski: efficace nella descrizione ambientale e capace di autonomia rispetto alle belle scenografie di Erik Svensson, nei momenti più drammatici tende a sovraesposti e a bruciare l'immagine. I paesaggi norreni avrebbero forse meritato un trattamento sulla scia della serie televisiva Vikings o di Valhalla rising (2009) di Nicholas W. Refn.
Quanto alla sceneggiatura di Aster, è forse la componente meno efficace del film: lineare e carica di parallelismi e rimandi interni, ambigua al punto giusto, risulta in molti punti poco organica. Lenta nelle descrizioni ambientali, insomma, e troppo frettolosa nello sviluppo alcune situazioni: il prologo sulla famiglia di Dani è quasi una propaggine a sé, e così dell'oracolo disabile vi sono giusto un paio di inquadrature e un breve riassunto di contesto. Migliore, invece, la psicologia della protagonista, ottimamente interpretata, e il gioco di specchi fra la sua storia di coppia e quella di Simon e Connie, che fa da contraltare realizzando nel concreto quelli che per Dani sono sogni ed incubi. Gli specchi, dopotutto, sono un altro elemento caratteristico del film: interessanti infatti alcuni dialoghi fra Dani e Christian a camera fissa, senza campi e controcampi ma giocati unicamente sui riflessi che permettono di comprendere entrambi i personaggi nel quadro.
In definitiva Midsommar non è un film perfetto e può apparire pretenzioso, ma lascia ben sperare per gli sviluppi sia della poetica di Aster, sia del genere horror contemporaneo.
A cura di Michele Piatti e Simona Rurale.
Pubblicato il 5 agosto 2019.
Pro:
- Riferimenti antropologici che costituiscono la caratteristica del film.
- Approccio autoriale nella regia e nella trattazione dei temi.
- Descrizione ambientale data da scenografie e colonna sonora.
Contro:
- Fotografia non sempre adeguata, per quanto efficace.
- Alcuni barocchismi di regia fin troppo pretenziosi.
- Sceneggiatura fra lentezza e omissioni disorientanti.
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