Due famiglie americane attraversano gli anni fra la Guerra di secessione e la nascita del KKK.
Due famiglie americane attraversano gli anni fra la Guerra di secessione e la nascita del KKK.
Nascita di una nazione è il peccato originale della storia del cinema nel passaggio di fase dal regime delle attrazioni mostrative a quello delle integrazioni narrative. Fuori di linguaggio tecnico, l'opera più celebre di David Wark Griffith si è rivelata fondante per la grammatica e la semantica del racconto filmico tanto quanto i poemi omerici per la letteratura occidentale. Tuttavia, è quasi paradossale che, a proposito uno di quei film che troneggiano imprescindibili nei manuali di cinematografia, non si possa non condurre un discorso che ne riguarda non i modi narrativi, ma la materia narrata il significato: i quali erano già allora, nel 1915, intrisi di irricevibile razzismo, falsificazione storica, imbarazzante arianesimo. Per osservarlo prescindendo da un atto politico, inteso come valutazione dei conflitti nel mondo, occorre compiere uno sforzo di astrazione immenso. Per utilizzare una metafora, che solo debolmente ne restituisce il dilemma: riconosceremmo con la stessa neutralità il genio pittorico di Pablo Picasso, se questi fosse stato un sostenitore del nazismo tanto convinto da esprimerne le idee nei propri quadri? Oltre ad essere una pietra miliare del cinema, Nascita di una nazione ne è anche una pietra di inciampo: pone problemi dal punto di vista della filologia e della conservazione cinematografica, interroga gli Stati Uniti e l'intero mondo circa le proprie auto-narrazioni e auto-indulgenze, soprattutto domanda al cineasta e al critico di oggi quanto sia sottile il confine fra grammatica e contenuto, e quanto la scelta stessa di praticare o assistere al cinema (concepito in un certo modo, si intende) sia intrisa di implicazioni e scelte.
La storia è tratta dal romanzo The Clansman: An Historical Romance of the Ku Klux Klan, dal lavoro teatrale The Clansman e dal romanzo The Leopard's Spots di Thomas F. Dixon Jr. La sceneggiatura, scritta da Griffith stesso con Frank E. Woods (collaboratore anche di Mark Sennet, altro grande patriarca del cinema muto americano), tolte la suddetta ideologia, è perfetta. I personaggi sono delineati con efficacia e veemenza, senza essere più solo funzioni narrative volte all'azione meccanica: i desideri, i conflitti, le paure di ognuno di loro sono tratteggiati con cura. La grande Storia d'America, portata avanti da guerre, soprusi e ideologie, si intreccia alle vicende minuscole, fatte di passioni più o meno ferine. La costruzione drammatica, al di là della divisione in due atti e della struttura circolare imperfetta (spezzata dalle ultime, oniriche, immagini), ha una scansione di continui climax e accelerando narrativi. La solidità del racconto diventa, con questo film, più importante del gusto fine a se stesso della mostrazione: è il passaggio fra cinema come spettacolo di prestigio a cinema come arte tecnologica.
La regia di Griffith è, ovviamente, rivoluzionaria sotto il profilo delle inquadrature, coi primi piani dei personaggi che acquistano finalmente un significato narrativo e non più solo accessorio.
Sempre Griffith, con Joseph Henabery, James Smith, Rose Smith, Raoul Walsh, fonda di fatto la tecnica del montaggio analitico, che supera la sintassi di impianto teatrale delle inquadrature fisse in favore di un alternarsi di raccordi in asse, di sguardo e di movimento. Modalità, quest'ultima, senza la quale ad oggi sarebbe impossibile pensare al cinema stesso. La fotografia di Billy Britzer è altrettanto efficace ai fini narrativi ed espressiva: oltre ai succitati piani degli attori e al bel bianco e nero, è notevole l'intensificazione della tecnica della colorazione in tinta a fini espressivi, qui portata al massimo. Fra gli aspetti di cui non si discute quasi mai, per ultima, la partitura di Joseph Carl Breith e nuovamente Griffith, maestosa e a tratti wagneriana.
Come postilla, andrebbe citata una delle ultime incursioni del capolavoro di Griffith nel cinema contemporaneo: la citazione che ne viene fatta in BlacKkklansmen (2018) di Spike Lee: una ripresa diretta e meta-cinematografica, dato che in una sequenza viene mostrata una parte del film di Griffith. Lee si trova nella triplice posizione di personaggio politicamente impegnato, uomo del cinema come mezzo e maestro di un modo politico di utilizzarlo. La presenza dell'odiato padrino Griffith in tale sede testimonia quanto il maestro americano e la sua opera rappresentino un dilemma su quale risulta impossibile non confrontarsi.
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