Dopo aver perso il lavoro e il marito, Fern si mette in viaggio sul suo furgone; inizia così la sua vita da nomade.
Dopo aver perso il lavoro e il marito, Fern si mette in viaggio sul suo furgone; inizia così la sua vita da nomade.
Vincitore del Premio Oscar come miglior film, Nomadland intreccia sentimenti e realismo con una peculiare originalità narrativa e stilistica.
In un'America che sembra così distante e dimenticata, troviamo la nostra protagonista, Fern, masticata e sputata da una società che l'ha resa invisibile.
Fern prende il volto di Frances McDormand (Fargo, 1996; Tre manifesti a Ebbing, Missouri, 2017) che con una performance magistrale riesce a rendere visibile e credibile questa protagonista; con un'empatia trasversale si immerge totalmente nella terra su cui cammina, nel letto in cui dorme, nelle persone che vede e che sente. Convincente e commovente in ogni singolo frammento della narrazione, sorregge da sola le quasi due ore di narrazione.
La regia di Chloé Zhao (The Rider – il sogno di un cowboy, 2017), affascinante e curata, si spoglia di ogni virtuosismo per accompagnare quest'aura di intimità che pervade la pellicola, soffermandosi prima sui volti segnati dei personaggi, poi sul singolo individuo, così piccolo in confronto alla vastità del mondo in cui è destinato a vagare.
La dimensione del vagare e delle vastità dei paesaggi è regalata soprattutto dal formidabile lavoro di Joshua James Richardson (La terra di Dio – God's own country, 2017) sulla fotografia.
Il realismo gioca un ruolo fondamentale nella realizzazione della pellicola: la partecipazione di veri nomadi, la luce naturale nella fotografia, la pura semplicità della regia conferiscono al film quasi un aspetto documentaristico.
L'idea della strada, che si intreccia sia nel senso di road movie, sia propriamente nel senso di viaggio personale, ricorre spesso durante la narrazione. Così come la metafora della fede nuziale di Fern, la circolarità vita, il lutto, l'eterno ritorno, appare anche un senso inevitabile di morte che si intreccia con quello della speranza, speranza di ritrovarsi prima o poi tutti nuovamente sulla strada.
Lo spiega bene Fern stessa, citando Shakespeare e il suo 18esimo sonetto: “Né perder la bellezza che possiedi, né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra, quando in eterni versi nel tempo tu crescerai: finché uomini respireranno o occhi potran vedere, queste parole vivranno, e daranno vita a te.”
La durata del film si sposa bene con il senso di percorso, di viaggio ma viene talvolta aggravata da un montaggio che da un lato funziona sul piano dell'originalità narrativa, ma da un altro, in relazione alla mancanza ritmica, rende questa durata eccessivamente dilatata e a tratti pesante.
Le musiche di Ludovico Einaudi rappresentano un altro elemento di incertezza: sembrano quasi stonare all'interno dell'intimità della narrazione e nella semplicità della filosofia vitale della protagonista.
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