Il film descrive una settimana della vita regolare e quotidiana di un autista, in una cittadina di provincia americana, appassionato di poesia.
Il film descrive una settimana della vita regolare e quotidiana di un autista, in una cittadina di provincia americana, appassionato di poesia.
È difficile pensare a un film (di narrativa, almeno) che abbia tutti i caratteri della poesia. Questa per definizione è fatta di ritmi, figure retoriche, silenzi, significanti sconnessi dai significati: se la poesia è parola che si fa immagine, la sintassi cinematografica è invece essenzialmente immagine mostrata, non evocata.
Ebbene, Paterson ci riesce in modo ottimale. Non solo per i numerosi riferimenti alla poesia stessa (Laura è un nome petrarchesco e sta per la donna angelica e idealizzata), ma proprio per come i differenti comparti filmici si coordinano fra loro.
Il soggetto, così come la sceneggiatura, di Jim Jarmusch (autore fra gli altri di Daunbailò, 1986, e del prossimo I morti non muoiono) a prima vista sconvolgono qualsiasi regola di storytelling: non vi sembra essere quasi una trama, ma totale assenza di colpi di scena ed evoluzione.
Però, come la poesia è fatta di piccole unità semplici che assieme formano un'impressione completa, così a contare nella storia sono le minime cose: i gesti ripetuti, il ritmo lento e interamente quotidiano, i dialoghi quasi più reali della realtà stessa. Semplicità non vuol dire banalità, e l'assoluta leggerezza della sceneggiatura lo mostra bene. Sono i significati nascosti, da scovare fra i frames, a rendere unico questo film:
i silenzi del protagonista, il rapporto felice ma complesso con la moglie così diversa, gli incontri di tutti i giorni non dicono nulla da sé ma lasciano allo spettatore il gusto di capire, interpretare, calarsi nella vita di un uomo qualunque che viene reso unico proprio dalla sua passione per la poesia.
Il visivo, a propria volta, è ad hoc. La regia di Jarmusch, assieme alla fotografia di Fred Elmes (esperto nel dare volto alla provincia americana, da collaboratore abituale di David Lynch oltre che dello stesso Jarmusch) alterna quadri geometrici a visioni più evocative e liriche, complici i paesaggi che variano dalla linearità di un autobus alla bellezza dei paesaggi naturali. Anche qui, la naturalezza nasconde in realtà una grande maestria: molte le inquadrature, infatti, che prevedono specchi e piani riflettenti, scelta non da poco in quanto complicata da realizzare. C'è da chiedersi perché non ci siano, in questa vera e propria messa in scena della realtà, piani sequenza evidenti: se è vero che, come diceva il filosofo del cinema André Bazin, i long take fanno combaciare tempo narrato e tempo effettivo rendendo le sequenze più realistiche che mai, inserirli sarebbe forse stato uno sfoggio di bravura che avrebbe fatto torto all'invisibilità discreta della macchina da presa.
Le musiche di Carter Logan (produttore del film assieme a Joshua Astrachan) si fondono con le sequenze contrapponendo toni cupi alle scene più usuali, accentuando l'atmosfera di realismo magico che permea l'intero prodotto finale. A proposito di realismo magico, cioè l'attitudine a trovare nella realtà quotidiana ciò che la rende unica e, per certi versi, miracolosa, è lodevole l'interpretazione di Adam Driver. Questi, oltre a reggere quasi da solo poco meno di due ore di film, è un attore perfetto nel suo non fare l'attore, ma un uomo allo stesso livello dello spettatore.
Paterson, in definitiva, è un film non per tutti, che va seguito, più che visto. In perfetto stile Jarmusch, che con I morti non muoiono, appena presentato a Cannes e in uscita in Italia il mese prossimo, sembra virare verso l'horror comico, fornendo invece una perfetta parodia di cliché e funzionamenti del cinema stesso. Una prova da maestro e conoscitore della Settima Arte, quale lui dimostra di essere anche in questo caso.
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