La vita di un galoppino di uno strozzino di Seul cambia improvvisamente quando una donna si presenta a lui come sua madre.
La vita di un galoppino di uno strozzino di Seul cambia improvvisamente quando una donna si presenta a lui come sua madre.
Presentato alla 69ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, dove si è aggiudicato il Leone d'oro, Pietà prefigura il ritorno sulla scena del regista Kim Ki-duk (La samaritana, 2004; Ferro 3 – La casa vuota, 2004), scomparso dai riflettori per ben tre anni, in seguito all'incidente avvenuto nel corso delle riprese di Dream, in cui la protagonista ha rischiato di morire impiccata. Questa volta, ispirato da una visita al Vaticano, Kim Ki-duk destruttura un'atipica storia di vendetta nell'immaginario cinico e capitalistico della città di Seul. Kang-do (Lee Jung-jin) è l'orfano trentenne del racconto, fin troppo perfetto, e sadico, per ricoprire il lavoro di boia torturatore. Il rapporto morboso e tossico con la figura della madre, tipico dei personaggi di Kim Ki-duk, esprime quel tanto (o poco) finto amore materno che basta per far redimere il protagonista da una vita passata insieme all'odio, facendolo tornare fragile e ingenuo come un bambino. È in lui che il contrasto netto tra pietà cristiana ed esagerata violenza si manifesta.
Il film combina ottimamente il concetto di morale occidentale (di matrice cristiana) con quello orientale
(incentrata sulla vendetta; si pensi per esempio alla filmografia del coreano Park Chan-wook: Old Boy, 2003). Il primo si rivela sia nel repentino cambiamento (eccessivamente improvviso) del giovane, sia nella pseudo-madre, che prima di morire sembra provare pietà per il ragazzo contro cui sta per vendicarsi. Il secondo invece si percepisce in modo particolare nell'etica della nobiltà della vendetta, e gli eccessi che ne derivano (masturbazione, violenza, stupro). Se la religione non può contrastare e rispondere alle lapalissiane contraddizioni dell'uomo, allora entra il gioco il denaro: primissima arma del sistema capitalistico contemporaneo, ciò che effettivamente accende la scintilla di questa tragica storia.
Nella rappresentazione di una Seul corrotta, dal denaro e dall'inganno, Kim Ki-duk sfrutta i momenti più salienti e drammatici del film evitando di mostrarli nella loro più cruda manifestazione, portando così lo spettatore ad immaginare. I movimenti di macchina, spesso frenetici, appaiono caotici, quasi amatoriali. Eppure, sono numerosi i momenti nei quali questo tipo di regia destabilizza l'animo dello spettatore, a tal punto da immedesimarsi insieme ai protagonisti, come nella scena nella quale la cinepresa segue sistematicamente il movimento degli schiaffi, come fosse anch'essa percossa.
L'ottima fotografia segue, con le sue tonalità cromatiche, le vicende del racconto. Se inizialmente viene fatto largo uso di colori grigi e spenti, utili a risaltare le strade periferiche di Seul, dopo l'accettazione della madre, dove la pietà prevale sull'odio, i colori diventano più luminosi, salvo poi spegnersi nuovamente nel tragico finale.
Peccato per il trucco, eccessivo nel dipingere Kang-do come un divo pop anni '90, e scarno nelle scene più tensive (tra tutte il suicidio finale della donna).
È nelle scenografie che si rivelano le problematiche umane più recondite. Ogni bottega è identica all'altra, e ognuna di esse, nel loro squallore, contribuisce a personificare la povertà, finanziaria e morale, dei personaggi interpellati. La critica alle condizioni precarie e spietate della forza lavoro coreana arriva senza alcuna edulcorazione, quasi urlata ed estremizzata ma sempre funzionale e coerente al racconto. Che cosa sono i soldi se non l'inizio e la fine di ogni cosa: amore, onore, odio, ma soprattutto morte.
E se il titolo non fosse abbastanza chiaro è la locandina del film a fugare ogni dubbio. La Pietà di Kim Ki-duk non si distacca molto da quella di Michelangelo: entrambe tratteggiate dall'evoluzione di un dramma materno, nel tentativo di divinizzare l'animo umano evidenziandone soprattutto i limiti e le contraddizioni. Chissà se in questo senso il regista coreano, nella composizione di un film così straziante, nutra ancora speranza nell'uomo, o se, nichilisticamente, non veda via d'uscita.
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