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Andrzej Żuławski

Possession | Recensione | Unpolitical Reviews

Trailer non disponibile

Scheda:

poster di Possession
Titolo Originale:
Possession
Regia:
Andrzej Żuławski
Uscita:
16 aprile 1982
(prima: 27/05/1981)
Lingua Originale:
fr
Durata:
123 minuti
Genere:
Horror
Soggetto:
Sceneggiatura:
Andrzej Żuławski
Fotografia:
Bruno Nuytten
Montaggio:
Marie-Sophie Dubus
Suzanne Lang-Willar
Scenografia:
Musica:
Andrzej Korzyński
Produzione:
Marie-Laure Reyre
Produzione Esecutiva:
Casa di Produzione:
Gaumont
Oliane Productions
Marianne Productions
Soma Film Produktion
Budget:
$0
Botteghino:
$1 milioni
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Redazione

8

Pubblico

Redazione
Pubblico

Cast:

Anna / Helen
Isabelle Adjani
Mark
Sam Neill
Margit Gluckmeister
Margit Carstensen
Heinrich
Heinz Bennent
Heinrich's Mother
Johanna Hofer
Detektiv
Carl Duering
Zimmermann
Shaun Lawton
Bob
Michael Hogben
Man with Pink Socks
Maximilian Rüthlein
Sara
Leslie Malton
Pink Sock's Acolyte
Thomas Frey
Man at the Conference
Harry Riebauer
Taxi Driver
Dragomir Stanojević

Trama:

Anticipazione

Trama Completa

Nella Berlino Ovest del 1980 Anna, in crisi con il marito Mark, inizia ad agire in modo incomprensibile sotto l'influsso di una misteriosa e ancestrale creatura sovrannaturale.

Recensione:

Riuscire a offrire un'interpretazione completa di Possession, il film più conosciuto e controverso del regista polacco Andrzej Żuławski (Il diavolo, 1972; Amour braque, 1985), è un compito veramente arduo: l'opera è infatti estremamente stratificata e sonda i meandri della psiche dell'uomo nelle strutture archetipiche che, nel corso dell'evoluzione culturale, hanno plasmato la psiche stessa. È praticamente impossibile spiegare tutti i simbolismi presenti nel film, che pur mantenendo sempre un tono da horror d'autore alla Polanski (L'inquilino del terzo piano, 1976; Carnage, 2011; L'ufficiale e la spia, 2019), compatriota di Żuławski, affronta un ampio numero di tematiche molto difficili da ricondurre a una stessa linea narrativa di fondo: tra queste tematiche spiccano la lacerazione della coppia e del nucleo familiare, l'alienazione sociale, la ricerca di Dio, l'orrore della guerra e soprattutto un esoterismo legato ai temi psicoanalitici e mitologici del riemergere del dionisiaco nietzschianamente inteso nella civiltà contemporanea.

Mark, ovvero il maschile, durante la scena della lite nell'appartamento sfoga sulla moglie una violenza ingiustificata ma causata da una motivazione chiara, ovvero il tradimento, mentre la crudeltà che fin dall'inizio muove Anna non è mai razionalmente spiegabile; la violenza fisica e verbale – sempre legata all'umiliazione sessuale – che il marito infligge alla donna appare però, a un livello più profondo, come lo sfogo di una paura repressa nei confronti della psiche della moglie, per lui incomprensibile ma sempre più trascinante. L'uomo arriva a ripetere i comportamenti autolesionistici della donna sia perché ne è vittima sia per tentare di capirla come per simbiosi, ma durante tutta la prima parte del film tale emulazione non porta a una reale comprensione della sfrenatezza ancestrale che ha impossessato la donna e Anna si dona al marito solo alla fine, quando cioè l'uomo si dona a sua volta completamente a lei assimilando realmente la sua violenza: la forza oscura, che sia legata alla morte o al sesso, è sempre la stessa e l'unico modo in cui Anna concepisce l'amore è la passione sfrenata cui il marito cede incarnandosi nel mostro; solo in questo modo, in una morte indistinta dalla sessualità, la coppia si riunisce in una comunicazione più atavica rispetto a quella verbale.

La natura femminile rappresentata come soggetta a forze irrazionali e addirittura demoniache è uno stereotipo di un certo tipo di horror – si pensi al Rosemary's Baby (1968) del già citato Polanski o ai più recenti lavori di Ari Aster (Hereditary, 2018; Midsommar, 2019), ma tale aspetto anche se stereotipato non costituisce affatto un lato negativo dell'opera: questa particolare concezione della femminilità ha infatti radici culturali molto profonde, che arrivano alle divinità ctonie della prima mitologia greca, divinità femminili legate al sangue, all'oscurità e alla terra e represse con il procedere della civilizzazione dalle divinità olimpiche apollinee, legate al maschile, alla luce e alla razionalità. L'unica divinità in cui persiste una concezione tragica e irrazionale dell'umanità è Dioniso, dalla cui natura Nietzsche, nella sua Nascita della tragedia (1872), ha notoriamente tratto teorie che in Possession sono simbolicamente riprese in modo quasi pedissequo. Tra gli esempi più chiari si può collocare la scena in cui, prima di uccidere il detective, Anna offre all'uomo del vino, simbolo dionisiaco per eccellenza e associato come il dio al sesso e alla violenza, due facce della stessa medaglia di una concezione atavica, tragica e perturbante del reale di cui la creatura mostruosa, che come un satiro porta Anna a liberarsi in una sessualità e in una violenza sfrenate e senza limiti, è la rappresentazione metaforica. È dunque evidente dall'inizio, e poi confermato in sceneggiatura, il tema di fondo dell'attrazione e della paura dell'uomo verso l'irrazionalità della donna: i due personaggi omosessuali sembrano non a caso gli unici uomini immuni al vortice di Anna, che già prima di essere impossessata, come si vede nelle riprese del periodo in cui insegnava danza (attività tipicamente femminile), sfogava con sadismo sulle sue allieve la violenza repressa insita nell'incasellamento di cui lei stessa era vittima.


Il tema fondamentale del film è dunque il riemergere di forze oscure e ancestrali, legate all'impossibilità di comunicare poiché il linguaggio è una struttura già posteriore all'impulso dionisiaco, così come l'individualità, che non è considerata un dato di fatto come nella religione cristiana ma una particella dell'indistinto e bestiale essere atavico, forza trascinante ma rimossa, incarnata nel film dalla creatura mostruosa.


Anna rinnega l'emergere dell'individualità, tanto che il suicidio e l'omicidio arrivano a equivalersi, così come rinnega il modello femminile imposto dal Cristianesimo – la donna diventa un'”anti-Maria” e in questo senso è simbolico il vestito, blu come il velo della Vergine, che indossa per tutto il film. Fondamentale dunque per la comprensione del personaggio è la sequenza ambientata tra la chiesa e il sottopassaggio: Gesù – uomo – “guarda” Anna incinta dall'alto e la donna, soggiogata e frustrata da un'ideologia che ormai non le appartiene più, reagisce nella chiesa con versi animaleschi e soprattutto nel sottopassaggio, luogo non a caso sotterraneo, è contemporaneamente vittima di un aborto spontaneo e di un raptus simile all'impossessamento delle baccanti – l'aborto è inoltre significativamente la rinuncia al ruolo di madre da parte di Anna. In questa particolare sequenza è meravigliosa l'interpretazione allucinata di Isabelle Adjani, vincitrice del Premio per la migliore attrice alla 34º edizione del Festival di Cannes, che dimostra però la sua bravura anche in piccoli, quasi impercettibili, cambi d'espressione facciali, frequenti soprattutto nelle sequenze del film più alla Bergman (Scene da un matrimonio, 1973; Il posto delle fragole, 1957) in cui sono rappresentate le crisi della coppia – emblematica la scena in cui i coniugi, vicini ma nettamente divisi, discutono al caffè – e la tematica dell'incomunicabilità, che tramite una modalità che ricorda il cinema di Antonioni (La notte, 1961; Blow-Up, 1966) è esteriorizzata nell'ambiente urbano e alienante – in questo caso, ovviamente, nella divisione della città di Berlino, perfetta metafora del Doppelgänger. Il tema del doppio, ricorrente nel film, è nella psicoanalisi freudiana il più diretto esempio del perturbante, ovvero dell'emergere di quel rimosso ancestrale che Nietzsche identifica nel dionisiaco: apparentemente secondario ma estremamente significativo il fatto che Anna nasconda i pezzi dei cadaveri mutilati nel frigorifero, elettrodomestico associato alla figura rassicurante della moglie/madre che si occupa della casa.

A completare un film così complesso troviamo un comparto tecnico ineccepibile, interessante e coerente con la semantica dell'opera: già a partire dal particolarissimo incipit si impone un montaggio netto, che abolisce completamente la dissolvenza ed eccelle nella costruzione dei blocchi narrativi, i cui contrasti fotografici contribuiscono a tenere viva l'attenzione dello spettatore. La fotografia, realizzata da Bruno Nuytten, che insistendo nel mantenere il rumore volontariamente rinuncia al tipo di definizione dell'immagine che sarà dominante negli anni '80, è in grado di mettere a disagio lo spettatore senza risultare troppo fredda o artificiosa ed è perfetta nell'esteriorizzare la psiche dei personaggi, così come la scenografia, semplice ma molto incisiva; i colori, specialmente quelli caldi (quasi sempre accostati al bambino, distaccato anche cromaticamente dalla madre, “dominata” da toni freddi), spiccano senza mai apparire patinati. Notevole l'alternanza di ambienti inizialmente molto chiari e poi sempre più scuri, in particolare nella sequenza in cui Mark, al telefono, continua ad accendere e a spegnere la luce, esteriorizzando visivamente il conflitto tra razionale e irrazionale che percorre tutto il film.

Impeccabile anche la regia, inizialmente distaccata ma poi sempre più convulsa – notevole in questo senso l'uso della steadycam – e ricca di primi piani quasi deformanti; i virtuosismi sono presenti – particolarmente degni di nota i long take, specialmente quelli in movimento circolare ma anche quelli a seguire, reiterati e contrastanti con il montaggio a stacchi netti – ma occultati sapientemente per favorire l'immersività dello spettatore, mentre la scelta dei punti di macchina è sempre elegante, originale ed efficace. D'obbligo una menzione alla colonna sonora rarefatta e prog rock, che ricorda la partiture composte dai Goblin per Argento (Profondo rosso, 1975; Tenebre, 1982), al trucco (magnifica la resa del sangue, tipica di fine anni '70) e agli effetti speciali, curati da Carlo Rambaldi (Profondo rosso; Alien, Ridley Scott, 1979), per la mistica rappresentazione del tentacolare antropomorfo.

A cura di Lucia Ferrario.
Pubblicato il 27 febbraio 2021.

Pro:

  • Tematiche profondamente complesse trasposte in modo ambiguo ma molto coerente.
  • Comparto tecnico impeccabile, elegante e particolare.
  • Interpretazione di Isabelle Adjani.

Contro:

  • Background confuso del personaggio di Mark.
  • Sceneggiatura ostinatamente criptica.

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