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Denis Villeneuve

Prisoners | Recensione | Unpolitical Reviews

Scheda:

poster di Prisoners
Titolo Originale:
Prisoners
Regia:
Denis Villeneuve
Uscita:
7 novembre 2013
(prima: 18/09/2013)
Lingua Originale:
en
Durata:
153 minuti
Genere:
Dramma
Thriller
Crime
Soggetto:
Sceneggiatura:
Aaron Guzikowski
Fotografia:
Roger Deakins
Montaggio:
Joel Cox
Gary D. Roach
Scenografia:
Frank Galline
Musica:
Jóhann Jóhannsson
Produzione:
Broderick Johnson
Andrew A. Kosove
Kira Davis
Adam Kolbrenner
Produzione Esecutiva:
Edward McDonnell
Mark Wahlberg
John H. Starke
Robyn Meisinger
Stephen Levinson
Casa di Produzione:
Madhouse Entertainment
Alcon Entertainment
8:38 Productions
Warner Bros. Pictures
Summit Entertainment
Budget:
$46 milioni
Botteghino:
$122 milioni
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Redazione

8

Pubblico

Redazione
Pubblico

Cast:

Keller Dover
Hugh Jackman
Detective Loki
Jake Gyllenhaal
Grace Dover
Maria Bello
Franklin Birch
Terrence Howard
Alex Jones
Paul Dano
Nancy Birch
Viola Davis
Holly Jones
Melissa Leo
Ralph Dover
Dylan Minnette
Eliza Birch
Zoë Soul
Captain Richard O'Malley
Wayne Duvall
Bob Taylor
David Dastmalchian
Father Patrick Dunn
Len Cariou
Mrs. Milland
Sandra Ellis Lafferty
Anna Dover
Erin Gerasimovich
Joy Birch
Kyla-Drew
Officer Carter
Brad James
Officer Wedge
Anthony Reynolds
Forensics Guy
Robert C. Treveiler
Check Out Girl
Victoria Staley
Detective Chemelinski
Todd Truley

Trama:

Anticipazione

Trama Completa

In seguito alla sparizione della figlia, misteriosamente sequestrata insieme a un'amica, Keller Dover, insoddisfatto del modo in cui il detective Loki conduce le indagini, decide di farsi giustizia da solo.

Recensione:

Denis Villeneuve (Enemy, 2013; Blade Runner 2049, 2017), al suo quinto lungometraggio, costruisce un thriller solido, che riesce a mantenere sempre alta la tensione e l'attenzione dello spettatore senza scadere mai nel patetico, cosa non banale quando si trattano temi come quelli affrontati nel film; un difetto del precedente Polytechnique (2009) potrebbe essere infatti identificato in un'eccessiva chiusura retorica, che in Prisoners è assente. La costruzione del finale si rivela riuscita nell'ottenere un gradito effetto sorpresa (la donna e il suo movente erano obbiettivamente imprevedibili) ed è particolarmente apprezzabile la scelta di chiudere il film con il suono del fischietto, non tanto per una questione di suspance (il ritrovamento di Keller è infatti scontato) ma perché risparmia allo spettatore il visto e rivisto finale “rescue” trionfale tipico del genere thriller.


Il vero cuore del film non è tanto la narrazione thriller quanto l'evoluzione psicologica dei personaggi, Dover su tutti, di fronte a un soggetto inizialmente condiviso con tante altre pellicole.


Come successivamente farà in Arrival (2016), Villeneuve mostra la tendenza ad appropriarsi di un genere e a sovvertire le regole narrative e tematiche classicamente legate a tale genere: così come Arrival sarà un film di fantascienza che tratta in realtà del senso del linguaggio, Prisoners è un thriller che tenta di focalizzare l'attenzione dello spettatore non tanto sulla curiosità per la risoluzione del caso e sui colpi di scena inaspettati (comunque presenti), ma su una riflessione più ampia sulla violenza nascosta nell'apparentemente tranquilla vita di una cittadina della provincia americana. Il personaggio interpretato da Jackman, stereotipo del padre di famiglia ossessionato dalla sopravvivenza e pronto a sacrificare ogni senso morale in nome di ciò che ritiene giusto, è infatti il vero protagonista – nonché antagonista – del film nella sua rappresentazione di una violenza disumana e ingiustificabile anche se motivata dal nobile desiderio di salvare la figlia; questa violenza, diversa nell'intento ma nei fatti analoga a quella perpetrata dalla signora Jones e dal marito, è evocata nella scena iniziale, apparentemente estemporanea, della caccia al cervo con il figlio. Il detective interpretato da Jake Gyllenhaal, a cui la sceneggiatura, sotto questo aspetto notevole, affida alternatamente il ruolo di protagonista, è un personaggio al contrario estremamente sfuggente (non ne conosciamo neanche il nome) e il cui arco narrativo non presenta un'evoluzione particolarmente evidente; il momento in cui aggredisce Taylor è l'unico in cui cede completamente alla violenza cui Keller si abbandona fin dal primo momento, violenza che in precedenza era stata evocata dal modo aggressivo con cui tratta i criminali ma che il detective sembra riuscire a tenere sotto controllo, anestetizzando probabilmente il suo modo di interagire con l'altro a scapito della capacità di creare rapporti: il personaggio è appunto caratterizzato dalla dedizione quasi ossessiva al lavoro ai danni della propria vita privata, come afferma il suo superiore, e da un tic all'occhio, inserito spontaneamente da Gyllenhaal, che fa trasparire la nevrosi che lo affligge.

Aspetti negativi del film, oltre ai dialoghi non sempre brillanti, sono alcuni sviluppi narrativi a volte superflui cui è dedicata una quantità di tempo analoga, se non superiore, a quella relativa ai nodi davvero significativi e/o simbolici della trama: la “guerra a Dio”, interessante movente dei sequestratori, è appena accennata e la presenza ricorrente del Padre Nostro recitato sarebbe potuta essere più coerente e pregnante. Alcuni personaggi inoltre appaiono appena abbozzati e soprattutto i coniugi Birch, complici delle torture perpetrate da Keller, non ricevono l'attenzione dovuta e non sembrano essere destinati a pagare per gli atti di cui sono stati testimoni ignavi. Altro aspetto non troppo convincente è la recitazione: a fronte di una notevole performance di Paul Dano (menzione speciale al trucco, eccezionale nel ricostruire il suo volto malamente gonfiato) e di una prova convincente di Gyllenhaal, abile nel riuscire a caratterizzare agli occhi dello spettatore un personaggio così privo di background, risultano tendenzialmente inadeguate le performance dei membri delle famiglie Dover e Birch, fatta eccezione per una Viola Davis sempre incisiva. Le musiche di Jóhann Jóhannsson, che accompagna il regista canadese in altre sue pellicole (per esempio nel già citato Arrival), sono infatti pulite, essenziali e perfettamente funzionali alle sequenze senza mai risultare invasive e contribuiscono a creare uno scarto autoriale rispetto alle modalità del classico thriller, così come la regia mai sensazionalistica, originale nell'inserimento di dissolvenze in nero che elidono i momenti più prevedibili e brillante nella scelta dei punti macchina. L'apparato visivo è in generale notevole, non virtuoso al punto da catalizzare l'attenzione degli spettatori concentrati unicamente sulla trama ma funzionale a rendere il film interessante anche agli occhi dei non appassionati di thriller: splendida la fotografia di Roger Deakins (collaboratore di Villeneuve anche in Sicario, 2015, e in Blade Runner 2049), ben abbinata al contesto ma arricchita da una grazia cromatica che, insieme a numerose messe in quadro dalla composizione elegantissima, contribuisce a conferire al film una qualità che gli permette di emergere rispetto al classico thriller, genere nel quale risulta comunque perfettamente inserito.

A cura di Lucia Ferrario.
Pubblicato il 4 febbraio 2021.

Pro:

  • Regia e fotografia eleganti e originali rispetto al genere.
  • Interpretazioni di Dano, Gyllenhaal e Davis.
  • Colonna sonora ottima e ben bilanciata.

Contro:

  • Sceneggiatura interessante e originale ma meglio sviluppabile.
  • Recitazione di gran parte del cast secondario.

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