Un feudatario signore della guerra, ormai anziano, decide di spartire il suo impero tra i suoi tre figli, scatenando una guerra fratricida inaspettata.
Un feudatario signore della guerra, ormai anziano, decide di spartire il suo impero tra i suoi tre figli, scatenando una guerra fratricida inaspettata.
Fin dal principio le arti hanno ispirato e influenzato diversi registi nel comporre arte a loro volta, miscelando ove possibile letteratura, pittura, musica, danza o teatro, creando cinema. Akira Kurosawa (I sette samurai, 1954) è uno di quei pochissimi cineasti nella storia che è riuscito a combinare, con assoluta perfezione, più discipline artistiche nelle sue opere. Kurosawa affermava inoltre che non ci fosse niente di più sul suo creatore che l'opera stessa, non è un caso infatti che fu lui uno dei primi a esportare il cinema giapponese in Europa, di certo grazie alla vittoria del Leone D'oro a Venezia nel 1951, per Rashomon (1950). In esame oggi vi è Ran (1985), un meraviglioso saggio senza tempo su legami di sangue, orgoglio, brama di potere e sua conservazione.
Il film affonda le proprie radici nella cultura nipponica e allo stesso tempo stringe con sé una fetta della storia letteraria occidentale, fondendo miracolosamente un jidaigeki, pellicola in costume di dramma storico che narra vicende di samurai, con la tragedia del Re Lear shakespeariano.
Ricalcando la struttura narrativa dello scrittore inglese, la storia ripercorre le sorti di una famiglia nel momento della divisione del regno, riadattandola nel Giappone del periodo feudale. Le tre sorelle del dramma di William Shakespeare vengono sostituite dai tre figli maschi dell'anziano Hidetora, gran signore, che, stanco di lottare, spartisce l'impero. É assai sorprendente come, nonostante le evidenti diversità di tipo semantico e culturale tra il testo di Shakespeare e le leggende di carattere orientale, il film riesca a trasporre con universalità un trattato così complesso ed esaustivo sulla natura umana. Kurosawa concentra l'essenza tragica nei due personaggi chiave: il vecchio Hidetora, che lentamente, come Re Lear, sprofonda nella follia, incapace di credere alle reazioni dei figli, e Lady Kaede, spietata manipolatrice, figlia di una nuova generazione pregna di smania di potere, assente nel racconto shakespeariano, ma perfettamente confacente con le insperate dinamiche familiari di Ran (caos in giapponese), tra inganni e assassini.
La poetica del racconto è convogliata da un comparto estetico impeccabile. La regia, magistrale, predilige la staticità, scegliendo accuratamente punti macchina volti a esaltare ciclicamente sia i volti inquieti dei protagonisti, sia l'incontaminata bellezza del monte Fuji, scenografia ideale per il peso semasiologico dell'opera. In questo viene in aiuto la fotografia, che, ricorrendo maggiormente a luce naturale, incensa i momenti tragici con tonalità grigiastre, nel quale si stagliano solo il rosso particolarmente acceso del sangue e i colori degli stendardi. A questo proposito è doveroso ricordare il premio Oscar per i costumi. Tralasciando il gigantesco lavoro di ricostruzione storica degli abiti nipponici del tempo, di guerrieri e donne di corte, ciò che lascia sbalorditi è la scelta dei colori: per il padre si utilizza il bianco (purezza, ragione) che contiene in sé tutti i colori, da qui si generano i figli, giallo (facilmente mutevole), rosso (irrequietezza) e blu (equilibrio), i tre colori primari, rappresentanti ognuno una casata differente, rivelandosi semanticamente fondamentali e visivamente meravigliosi.
L'eccellenza del film si rivela anche e soprattutto nelle musiche, che insistono su una potente partitura orchestrale mahleriana (da Gustav Mahler, compositore austriaco) raggiungendo una perfetta sintesi tra sensibilità orientale e cultura d'occidente, e nell'utilizzo del trucco. Quest'ultimo è particolarmente marcato sul volto del protagonista, che diventa sempre più cadaverico, man mano stilizzandosi secondo sembianze di una maschera teatrale. In questo modo Hidetora trasmuta, da anziano signore a spirito alienato, sintetizzando la poetica nichilista del personaggio, e del regista stesso.
Akira Kurosawa firma con Ran l'ennesimo capolavoro, mescolando sapientemente la narrazione occidentale di natura shakespeariana al prototipo culturale nipponico; nel farlo scongiura una prevedibile svalutazione del messaggio critico originario dimostrando come un'opera intramontabile del passato possa essere sviscerata, spezzettata, e ricomposta per un pubblico globale, indipendentemente dallo stato dell'arte primigenio della stessa.
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