Un anziano intellettuale newyorkese in crisi rivaluta la propria esistenza mentre partecipa al Festival cinematografico di San Sebastián.
Un anziano intellettuale newyorkese in crisi rivaluta la propria esistenza mentre partecipa al Festival cinematografico di San Sebastián.
Woody Allen, a ridosso dell'uscita in libreria della propria autobiografia ufficiale A proposito di niente, percorre la via dell'autoritratto anche in questo film, la cui uscita in sala è stata accompagnata da numerose difficoltà distributive, in parte dovute anche alle controversie legate al personaggio pubblico di Allen. Il suo alter-ego, qui più che in qualsiasi altra opera recente del maestro newyorkese, è una fotografia fedele della sua personale guerra con una contemporaneità fatta di ipocrisie intellettuali, valori artistici ridotti al puro commercio e nuovi divi rampanti, quando ad Allen/Rifkin, intellettuale che sembra aver compreso quanto velleitaria e transitoria sia l'impronta dell'arte stessa nel mondo, non resta che accettare la senilità e apprezzare ciò che più è salvabile: il cinema classico e la sua magia irrecuperabile.
Allen, come regista e sceneggiatore, non aggiunge qui nulla di nuovo rispetto ai suoi tanti esperimenti metacinematografici e fellinani che in passato erano davvero riusciti a portare un po' di Europa nel cinema mainstream americano (Stardust memories, 1980). Il citazionismo portato all'estremo di Rifkin's Festival, la cui trama è davvero un pretesto per alternare le vicende del protagonista ai suoi ricordi cinematografici, appare qui davvero fine a se stessa: se dal punto di vista registico è gradevole la parodia per cui la cinepresa di Allen mima nel dettaglio le tecniche inesatte di Fino all'ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard e i caroselli alla 8 e ½ (1963) di Federico Fellini, la sceneggiatura ne soffre a livello di coerenza e sviluppo.
Allen non è mai stato fedele alla linearità e alla risoluzione del racconto, è vero, ma in passato questa tecnica di decostruzione aveva portato a risultati eccelsi.
Io e Annie (1977) resta un capolavoro proprio per la sua capacità di frammentare un discorso e restituire, come in una seduta psicanalitica, l'intera parabola di una relazione e di una maturità personale. Manhattan (1979), forse la più adulta delle prime commedie drammatiche di Allen, aveva poi la capacità di conferire ad ogni personaggio una dignità che trascendeva la caratterizzazione stereotipa da radical-chic newyorkese: ognuno, nel proprio contesto, era un individuo dotato di dramma, idiosincrasie, personalità. I protagonisti di Rifkin's Festival non hanno quasi nulla di tale profondità, annebbiata da un rimpianto dei propri miti che sembra più rimpianto che omaggio. Mort Rifkin, classico personaggio alleniano, per quanto interpretato da un ottimo caratterista yiddish quale Shawn, non suscita altro che qualche sorriso. Anche i dialoghi, storico punto di forza della scrittura di Allen, sono particolarmente spenti, più crepuscolari che brillanti. Si ricordano giusto una battuta sul conflitto fra Israele e Palestina e un'altra, geniale, sulla resurrezione di Gesù: tuttavia, gli apici di blasfema ironia sulle religioni raggiunti in film quali Amore e guerra (1975) e Hannah e le sue sorelle (1986) sono ben lontani.
I difetti di scrittura si riflettono sulle interpretazioni. Fatta eccezione per Shawn, gli altri attori appaiono davvero ingessati e alle prese con personaggi poco delineati. Si segnala l'ottimo cammeo di Christopher Waltz nel ruolo della Morte, in una riuscita parodia de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) che, per la paradossalità dei dialoghi, è un dei momenti migliori dell'intero film. Anche dal punto di vista registico, escluse le virtuose scene di citazionismo, la macchina da presa di Allen è meno elegante del solito. Molto buona invece la fotografia di Vittorio Storaro (Ultimo tango a Parigi, 1972; Apocalypse Now, 1978), soprattutto nel gioco di transizioni fra i colori temperati dell'ambientazione iberica e il bianco e nero dei sogni. A proposito di location, il rischio per Allen di sforare nella ripresa ‘da cartolina', che gli viene attribuito quasi ad ogni film ambientato in Europa, viene qui appena stornato dall'atmosfera malinconica presente in tutto il film.
Rifkin's Festival è senza dubbio un Allen minore, a tratti piacevole per i suoi fan, forse divertente per i cinefili pronti a cogliere le citazioni, meno per chi potrebbe ricercare le stesse tematiche in altri film (il più recente, dove in luogo del sogno cinematografico vi è quello della Belle Epoque, è il riuscito Midnight in Paris, 2011). Tuttavia, sarebbe scorretto affermare che Allen ha terminato la propria verve creativa: con il precedente Un giorno di pioggia a New York (2019), era infatti riuscito a declinare i suoi soliti temi in una veste più aggiornata, briosa, innovativa. Con una media di quasi un film all'anno da inizio carriera, è scontato alternare ottimi risultati ad altri mediocri. Quanto di positivo testimonia la bulimia produttiva di Allen, ed è un aspetto fondamentale in quest'ultimo film, è l'estremo amore per il cinema del regista newyorkese. La cui ostinazione, al di là dei risultati, rimane un inconfondibile marchio di fabbrica.
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