Una ragazza affetta da gravi problemi di salute, che la rendono dipendente dalla madre, scopre che le viene somministrato un farmaco non adatto a lei e ne indaga i motivi.
Una ragazza affetta da gravi problemi di salute, che la rendono dipendente dalla madre, scopre che le viene somministrato un farmaco non adatto a lei e ne indaga i motivi.
Sospeso fra thriller e horror, Run non riesce a brillare in nessuna delle due categorie. Opera dall'estetica traballante, risulta infatti troppo debole per mantenere costante la tensione nello spettatore e allo stesso tempo utilizza alcuni stilemi del film dell'orrore che rimangono fini a se stessi. L'idea di fondo della trama non è troppo dissimile da un film italiano di qualche anno prima, The Nest – Il nido (2019) di Roberto de Feo. Quest'ultimo ha tutti gli elementi che mancano a Run: trama più costruita e profonda nei rapporti fra personaggi, molteplici chiavi di lettura, decisa appartenenza al film di genere con annessa reinvenzione degli elementi, cura del dettaglio ambientale e buona gestione dei plot-twist. Laddove il film di de Feo si risolve in una favola cupa di grande suggestione, Run dà veramente l'impressione di un lavoro appena fermo alla stesura del soggetto. Soprattutto The Nest, senza rinunciare all'intrattenimento, si configura anche come acuta disamina del rapporto morboso, iperprotettivo e autodistruttivo fra madre e figlio, elemento che in Run resta solo abbozzato, più come pretesto per l'intreccio che come argomento tematizzato.
La regia da thriller di Aneesh Chaganty (Searching, 2018) è sicuramente di discreta fattura, con una gestione espressiva dei primi piani e cambi di focale a sottolineare determinati momenti di tensione e spaesamento. L'attenzione ripetuta su alcuni dettagli (i piatti cucinati dalla madre), le inquadrature dal basso e il montaggio rapido e fluido contribuiscono alla riuscita visiva del prodotto: la scena della fuga sul tetto, fra tutte, è forse quella più in grado di rimanere impresa nello spettatore. Più incostante è invece la fotografia di Hillary Spera, piuttosto anonima e spenta tranne che nei momenti più prossimi al genere horror, quali l'incipit e i notturni in cui la dominante nera funziona nel conferire inquietudine alla scena. Ambientazione e scenografie sono piuttosto limitate, senza elementi caratterizzanti.
Il difetto maggiore del film risiede però nella sceneggiatura, scritta da Chaganty con Sev Ohanian.
Oltre alla già citata incertezza nel bilanciamento fra toni di genere diverso, le tensioni e i rapporti fra personaggi non sono sviluppate fino in fondo e la trama soffre spesso di forzature e incongruenze, soprattutto alla luce dei flashback. La premessa narrativa del film, raccontata alla fine, così come alcuni snodi logici (la tentata fuga dall'ospedale, la sostanziale inesistenza anagrafica di Chloe) richiedono da parte dello spettatore uno sforzo non indifferente di sospensione della verosimiglianza. Lo stesso movente delle azioni di Diane, per quanto drammaticamente forte, è sbrigato con spiazzante superficialità. Fra tutti, il personaggio più forzato risulta però essere il postino Tom, che compare come Deus ex machina ed esce di scena subito dopo. Passati i primi dieci minuti di film, fatta eccezione per il colpo di scena finale, lo spettatore può facilmente indovinare i passaggi narrativi prima di vederli.
Le interpretazioni del cast sono essenzialmente dimenticabili. A salvarsi maggiormente è forse Kiera Allen, che riesce almeno a marcare l'evoluzione del personaggio di Chloe (come sopra, frettolosa dal punto di vista della scrittura). Buoni infine, montaggio sonoro e musiche di Torin Borrowdale. Run è in definitiva un mezzo passo falso. Il mestiere c'è ed emerge nelle sequenze migliori del film, a mancare sono però le idee e il senso di struttura complessiva.
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