Un giovane attore si reca presso la solitaria villa del marito della propria amante per convincerlo a concederle il divorzio. Ben presto la conversazione si trasforma in una delirante partita a scacchi all'ultimo inganno, all'ultima sevizia.
Un giovane attore si reca presso la solitaria villa del marito della propria amante per convincerlo a concederle il divorzio. Ben presto la conversazione si trasforma in una delirante partita a scacchi all'ultimo inganno, all'ultima sevizia.
L'adattamento cinematografico di un testo teatrale è un'operazione allo stesso tempo affascinante e rischiosa. Affascinante, perché si può contare su un soggetto tendenzialmente di qualità e su spunti letterari per i dialoghi. Rischiosa, perché il teatro classicamente è basato sulla parola e sul punto di vista unico, mentre il cinema vi aggiunge il movimento e il montaggio. Sleuth – Gli insospettabili, in tal senso, è un adattamento decisamente riuscito, anche e soprattutto perché sa giocare con una posta in gioco ambiziosa.
Il soggetto, l'omonima pièce del 1970 di Anthony Shaffer, prevede infatti una sola ambientazione, la villa, e appena due attori. Il rischio di ricavarne un teatro filmato, più che un film, era altissimo. La regia di Kenneth Branagh (Frankenstein di Mary Shelley, 1994; Assassinio sull'Orient Express, 2017) è barocca, a volte quasi troppo dimostrativa, e riesce a conferire una varietà di punti di vista sufficiente a dinamizzare la trama. Notevole il piano sequenza iniziale che, inquadrando dall'alto la soglia della villa, segue i personaggi fino all'interno 'bucando' letteralmente il soffitto: un gustoso rimando alla teatralità all'origine della storia, così come i numerosi schemi delle telecamere a circuito chiuso dell'edificio che proiettano lo spettatore in un gioco fra vedere/essere visto.
La sceneggiatura, poi, non è certo curata dall'ultimo degli autori. Si tratta infatti di Harold Pinter, premio Nobel per la letteratura nel 2005. Per quanto le sue incursioni nel cinema non sempre siano state all'altezza (Il racconto dell'ancella di Volker Schlöndorff, 1990), qui si ritrova una scrittura intelligente, paradossale e ironica nei dialoghi e nelle situazioni, sottile nel far emergere i tratti psicologici dei protagonisti.
La storyline risulta pertanto agile ma appagante, in un film relativamente breve che si confronta con la verbosità e la lunghezza del primo adattamento da Shaffer: il film omonimo del 1972 di Joseph L. Mankiewicz, della durata di oltre due ore.
L'idea alla base del soggetto, cioè rimandare di continuo al mestiere dello scrittore di gialli, al mondo della finzione, al capriccio letterario, in un sovrapporsi incessante di livelli narrativi, è sviluppata alla perfezione.
Di contro, l'impressione di trovarsi di fronte a un esercizio di stile potrebbe mostrare i propri limiti: non ci si deve aspettare troppe informazioni di contesto, e l'assenza/presenza della moglie sta al confine sottile fra McGuffin e semplice informazione non sviluppata. Si tratta però dello scopo del film: i momenti irrisolti sono parte del gioco a cui si è invitati, un gioco che, da buon thriller, non rinuncia ad assicurare tensione.
Altro punto a favore, la recitazione di Michael Caine e, soprattutto, di Jude Law. Due interpreti che da soli riescono a non far sentire la mancanza di altri comprimari. Entrambi sono abilissimi nel tratteggiare due diversi profili di psicopatici geniali, che di continuo si rapportano e si scontrano. Law è chiamato con successo ad una prova d'attore poliedrica ed estrosa, Caine ad affrontare un testo con cui in passato già si era confrontato: è stato lui, infatti, a impersonare Tindle nel film del 1972. Dal punto di vista del casting, una scelta in linea con l'intertestualità di base.
Dove la messa in scena, purtroppo, perde colpi, è invece la scenografia di Tim Harvey (collaboratore abituale di Branagh, per l'Hamlet del quale è stato candidato agli Oscar nel 1996). Difetto evidente, per un film che ne prevede una sola e dovrebbe farne il protagonista inanimato. Gli arredamenti spogli e la tecnologia insufficiente, da budget ridotto al minimo, non riescono a essere salvati nemmeno dalla fotografia fredda, ma poco varia, di Haris Zambarloukos (Mamma mia!, 2008). Si tratta di aspetti che abbassano la qualità complessiva di un film che, altrimenti, sarebbe stato vicino alla perfezione di un gioiellino, piccolo ma prezioso.
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