Tre uomini si avventurano nella Zona, una misteriosa porzione di territorio dove, a seguito di un impatto con un oggetto extraterrestre, le leggi della fisica sembrano sovvertite.
Tre uomini si avventurano nella Zona, una misteriosa porzione di territorio dove, a seguito di un impatto con un oggetto extraterrestre, le leggi della fisica sembrano sovvertite.
Il genere fantascientifico, sovvertendo i paradigmi scientifici e logici del nostro mondo fisico, si è spesso prestato a declinazioni fortemente filosofiche e riflessive. Lo prova il recente Arrival (2016) di Denis Villeneuve, così come la grande parabola antropocentrica di 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick. Proprio in relazione a quest'ultimo Andrej Tarkovskij ha sofferto in passato di una pessima distribuzione pubblicitaria in Italia, che descriveva il suo Solaris (1972) come risposta sovietica al capolavoro del Maestro. Ovviamente Tarkovskij difficilmente può essere incanalato in un confronto superficiale e condizionato: il suo cinema è tanto personale quanto radicato nella cultura russa, la stessa di Fëdor Dostoevskij. Il suo occhio cinematografico si getta su questioni esistenziali eterne, inserendole però solo apparentemente in parentesi della Storia. Se proprio si vuole azzardare un confronto con Kubrick (e sarebbe comunque indebito), si può giusto dire che entrambi hanno piegato le leggi della cinepresa a un discorso intellettuale elevato. Kubrick ne ha fatto del cinema totale, quasi wagneriano; Tarkovskij le ha dissolte nella lirica, nella mistica, nella sinfonia estetica.
Stalker, sceneggiato dallo stesso Tarkovskij con gli autori del romanzo di partenza Picnic sul ciglio della strada Arkadij e Boris Strugackij, è appunto una favola fantascientifica dai contenuti universali. La Zona, mai definita totalmente, può essere una metafora della vita stessa, insidiosa e sempre in divenire, carica ora di significati religiosi, ora soggettivi.
È qualcosa che sfugge al dominio dell'intelletto e della volontà e viene percorsa da uomini, ognuno a modo proprio, disperati e imprigionati.
Al centro di tutto vi è, come detto nel film, l'attrito fra animo e mondo esterno, che diventa desiderio. Il viaggio sta a significare ricerca esistenziale nello spazio e nella memoria, mentre sullo sfondo si agitano le ansie globali sulla militarizzazione del quotidiano, sui limiti della ricerca scientifica, sulla paura per quello Spazio aliene, al tempo del film, oggetto di una vera e propria competizione fra superpotenze. La scrittura scenica, composta da un alternarsi di fitti dialoghi e silenzi, è complessa e lenta ma mai ridondante.
La regia è prossima alla perfezione, con una lenta e minuziosa costruzione di quadri fotografici e un'alternanza di campi espressiva. Gli sguardi in macchina, frequenti e qui usati quasi fossero punti di sospensione in un testo scritto, rimandano ai limiti descrittivi del lignaggio stesso. Rimane visivamente impressionante la pulizia delle inquadrature contrapposte alle scenografie dimesse della città oltre la Zona. È però nel lirismo di quest'ultima che la perizia scenografia di Tarkovskij stesso raggiunge il suo apice. Descrivendo, appunto un mondo che rispecchia il suo cinema straniante: tanto impossibile quanto visibile, così alieno da risultarci prossimo.
La fotografia, a cura di Aleksandr Kniažinkij, quasi ironizza sull'espediente ormai storico de Il mago di Oz (1939) di Vittoria Fleming, che indicava la transizione fra due mondi con il cambio da bianco e nero a colore. Il seppiato delle scene terrestri è suggestivo e drammatico, mentre i colori tenui della Zona contribuiscono all'alone di suggestione e misticismo. Efficace e nuovamente espressionista infine la colonna sonora di Ėduard Nikolaevič Artem'ev, affiancata da una selezione di musica classica che annovera Maurice Ravel, Richard Wagner e Ludwig Van Beethoven.
Quella di Tarkovskij non è fantascienza spettacolare o mostrativa ma filosofica, riflessiva, umanistica. Autoriale, ma universale. In questo senso, davvero il suo modello narrativo è alternativo a tante altre produzioni. La sua portata, invece, è davvero incomparabile per l'unicità che rappresenta.
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