Fra avvocati rampanti, fisime da artisti e pittoresca umanità americana, due coniugi legati dall'amore per il figlio si trovano a dover affrontare il divorzio.
Fra avvocati rampanti, fisime da artisti e pittoresca umanità americana, due coniugi legati dall'amore per il figlio si trovano a dover affrontare il divorzio.
Presentato alla 76ma Mostra del cinema di Venezia, Distribuito da Netflix, per troppi pochi giorni, nelle sale, Storia di un matrimonio è innanzitutto la prova che il colosso dello streaming, spesso detestato dai puristi della cinefilia in sala, sa produrre del grande cinema (per quanto, secondo noi, riuscito solo in parte, The Irishman, 2019, è comunque un'opera del maestro Martin Scorsese). Non solo: in un'edizione così atipica e controversa del festival della laguna, che ha visto vittorioso un inaspettato Joker e ha accolto scottanti fallimenti quali Ad astra, Storia di un matrimonio resta fra i titoli migliori presentati, nonché fra le rivelazioni dell'anno 2019. Questo dovrebbe fare riflettere sulle potenzialità delle nuove forme di produzione e distribuzione multimediale che, invece di essere bollate come dannose per la Settima arte, andrebbero considerate con più attenzione.
Noah Baumbach, giovane assistente di Wes Anderson e già autore di Mistress America (2015) e The Meyerowitz stories (2017), firma regia e sceneggiatura, eccellendo in entrambe. Il soggetto è fra i più semplici, lo sviluppo della storia e dei dialoghi riportano però alla commedia sofisticata americana e ai vecchi capolavori (Io e Annie, 1977) di Woody Allen. Questi è infatti il modello per molti degli elementi presenti nel film: l'opposizione spaziale ed esistenziale fra la intellettuale New York e la sbarazzina Los Angeles, il ricorso alle voice over, autobiografiche ed ironiche, dei due monologhi iniziali, i dialoghi continuamente costellati di umorismo yiddish sono solo alcuni dei punti che Baumbach riprende da una tradizione ben consolidata.
Eppure, nel film in questione, non c'è il narcisismo psicanalitico di Allen e nemmeno il cinismo, un po' sessista e un po' flapper, della screwball comedy hollywoodiana. La sceneggiatura, attenta a equiparare i punti di vista di entrambi i protagonisti, evidenziandone criticità e pregi, sa essere tanto pungente quanto intima, emotiva, realistica pur nelle caratterizzazioni umoristiche dei personaggi. Dell'unico soggetto silenzioso, il figlio, in questo fluire continuo di battute, si racconta l'ulteriore dramma, tutt'altro che ancillare rispetto a quello del tempestoso e coinvolgente rapporto dei genitori. A voler azzardare un paragone, se i film di Allen hanno l'effetto di una seduta solitaria dal terapista, quello di Baumbach assomiglia più a un confronto fra entità autonome:
significativo infatti che Io e Annie si apra con un monologo su se stesso, mentre Storia di un matrimonio con due, che reciprocamente dialogano fra loro.
Risultando quindi più universale, completo, umanamente struggente e profondo. L'umorismo delle situazioni non diventa mai demenziale, il sentimento mai patetico: come il film vada a finire è chiaro fin dall'inizio, eppure lo spettatore difficilmente non ne rimane coinvolto.
La regia, sobria e sempre memore delle lezioni sopra citate, si adatta perfettamente ai tempi del racconto. Prediligendo lunghi piani sequenza, nobilita la capacità degli attori e la scrittura dei dialoghi: i tempi sono quelli del teatro, che significativamente è il mestiere del protagonista maschile. La fotografia di Robbie Ryan (The summit, 2012; Io, Daniel Blake, 2016) risulta curata e attenta: i colori chiari degli interni e la luce naturale degli ambienti contrastano infatti con l'oscurità interiore dei personaggi e contribuiscono ad alleggerire un carico emotivo altrimenti pesante. La scenografa Jade Healy, a propria volta, crea degli ottimi contrasti fra l'aspetto informale degli ambienti familiari, la percepibile classe dei teatri e l'asettica formalità del tribunale e dell'hotel dove Charlie si ritrova a vivere. Unico aspetto sottotono, le musiche: la colonna sonora di Randy Newman, storico compositore per Monsters & Co. (2001) e le saghe di Toy story e Cars, appare non all'altezza dell film.
La menzione d'onore più alta, però, va alle interpretazioni. Non è scontato, per un attore cinematografico, reggere ritmi senza stacco e dialogici come quelli qui presenti, e saper elaborare nel mentre conflitti adeguati da esprimere. Eppure sia Driver che Johansson firmano delle prove memorabili. La seconda appare matura, auto-ironica e commuovente, forse nella sua migliore performance di sempre. Il primo, che già aveva dimostrato le proprie capacità reggendo da solo un film come Paterson (2016), raggiunge qui il proprio apice di versatilità e realismo: se è vero, come si dice, che per un attore la sfida più difficile è piangere in scena senza risultare parodistico, Driver la supera a pieni voti nell'impressionante sequenza del proprio sfogo di rabbia. Un difetto spesso attribuito a Driver è di apparire sempre troppo impassibile a fedele all'underacting: qui, oltre che adatto al personaggio, riesce a sconfessare il pregiudizio. Si assiste, dunque, a un testa a testa di bravura fra due artisti, entrambi impegnati anche nel cinema commerciale (MCU e Star Wars), che evitano tuttavia di rubarsi la scena vicendevolmente. I personaggi secondari, poi, non sono da meno: Laura Dern, in tutta sincerità, riesce a divertire anche solo con la propria entrata in scena (sapientemente inquadrata a figura intera e dal basso dalla macchina da presa, dando l'idea del carattere dominante dell'avvocato).
Adorabile per lo spettatore più emotivo, fonte di riflessione per il più intellettuale, ottimamente confezionato per il più oggettivo, Storia di un matrimonio rappresenta una nuova soglia per il genere della commedia drammatica, portata sullo schermo con un'attenzione e una profondità spesso
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