Sei storie distinte, che hanno in comune violenza, vendetta e umorismo macabro.
Sei storie distinte, che hanno in comune violenza, vendetta e umorismo macabro.
Relatos salvajes, titolo originale del film prodotto, fra gli altri, da Pedro Almodovar, rende meglio della traduzione italiana la tematica che lega i sei, surreali episodi. Selvagge, più che pazzesche, sono infatti le storie e i personaggi che ne sono protagonisti: il selvaggio è ciò che irrompe quando la civiltà, fatta di regole e convenzioni ma intrinsecamente violenta, cede il posto alla vera natura dell'essere umano. Che, insegna questo film, è lungi dall'essere categorizzabile come buona o cattiva.
Il primo grande pregio di Storie pazzesche è infatti l'irriducibile, dionisiaca, mancanza di moralismo: all'azione violenta più o meno accettata dagli schemi civili (una multa, una scappatella amorosa, una mazzetta) consegue una reazione altrettanto violenta, distruttiva solo apparentemente perché fuori dagli schemi. Il parallelismo con gli animali, presente nello stesso film, rimanda alla (travisata, ma efficace narrativamente) idea darwiniana di lotta per la sopravvivenza delle specie: un gioco dove non ci sono regole, ma solo un'esplosiva – letteralmente – inventiva. Ogni storia viene poi declinata in uno specifico scenario: tuttavia a fare da sfondo è sempre quell'Argentina irruenta e focosa, fatta di contraddizioni, strade desolate, disparità sociali e rivendicazioni politiche. La crisi economica di inizio millennio e la sua onda lunga in America Latina, così presenti tuttora nell'immaginario cinematografico e narrativo nazionale, si fanno sentire.
La struttura a episodi slegati, se da un lato espone il film al rischio di discontinuità, dall'altro consente un trattamento caleidoscopio dei microcosmi narrati. In aggiunta, il ritmo dei singoli racconti è compresso e risulta frenetico al punto giusto da arrivare sempre dritto al climax, dando allo spettatore la sensazione di venire letteralmente trascinato nella discesa nella follia: ogni episodio trae spunto, peraltro, da situazioni di vita assolutamente comuni o almeno verosimili, per poi ribaltarne le aspettative scontando, nelle vicende, quanti più paradossi possibili. La sceneggiatura del regista e montatore Damián Szifrón (El fondo del mar, 2003) ha il pregio di non perdere quasi mai il ritmo e il gusto dell'esagerazione. Il rischio ovviamente potrebbe essere quello di trascurare l'approfondimento psicologico dei personaggi: in realtà, tutti i protagonisti delle vicende individuali hanno caratteristiche, per quanto stilizzate, scopi e conflitti ben precisi.
Lo storytelling è cinico senza mancare di empatia per alcuni personaggi, paradossale senza scadere nel demenziale. Per lo spettatore è così davvero possibile immedesimarsi nelle storie narrate e partecipare al gioco di fantasia che il film propone:
una sorta di what if, cosa accadrebbe se dessimo libero sfogo ai nostri istinti più nascosti? Come si è detto in principio, la filosofia del film rispetto all'uomo non è pessimista o critica, semmai disincantata e liberatoria.
Non tutti gli episodi, ovviamente, viaggiano sullo stesso livello qualitativo. Il primo è perfetto nella sua brevità, esasperato e tragicomico, con un buon utilizzo del sonoro a trasmettere tensione: riesce a introdurre lo spettatore al tono generale del film. Il secondo, meno mordente, presenta però una regia e un utilizzo degli spazi, limitati, molto accurati. Il terzo è fine a se stesso, sicuramente il più debole, mentre il quarto, che presenta una sorta di fantozziano uomo qualunque che si trasforma in dinamitardo, è patetico e intuibile ma efficace. Il quinto ha un soggetto di partenza interessante e uno sviluppo prevedibile. L'ultimo invece chiude alla perfezione il film, evitando per una volta di risolversi in un bagno di sangue. Se quindi i singoli capitoli sono alterni, la struttura complessiva non solo non ne risente, ma è valorizzata.
La regia, a sua volta, è di ottimo livello: la capacità di sottolineare i passaggi più iperrealisti si alterna a un buon controllo dei pochi, ma pur presenti, momenti di quiete o di dramma. Molto buona anche la fotografia di Javier Juliá, in grado di dare i giusti toni e identità ai singoli racconti e che dà il suo meglio in quelli più cupi. A essere più trascurati, ma si tratta di particolari tecnici, il trucco in alcune scene (quella del matrimonio) e gli effetti speciali. I quali, risultando evidentemente finti soprattutto nelle esplosioni, fanno torto a uno dei pregi maggiori del film, cui prima si è accennato: il forte contrasto fra il realismo della situazione e le sue derive apparentemente inverosimili. Molto attinenti, invece, le musiche di Gustavo Alfredo Santaolalla, premio Oscar nel 2006 per I segreti di Brokeback Mountain e nel 2007 per Babel. Per finire, le interpretazioni sono sempre adeguate, in alcuni casi ottime: si segnala in particolare Ricardo Darín, volto noto del cinema argentino, nei panni di un cittadino medio che diventa rivoluzionario, ruolo comparabile a quello del Robin Hood improvvisato nel recentissimo Criminali come noi (2019) di Sebastián Borensztein.
Storie pazzesche non è, in definitiva, un film irrealistico: semmai è grottesco, nel senso che parte da dati oggettivi per esagerarne le derivazioni. Un buon esempio di narrazione per episodi e, soprattutto, un'opera veramente in grado di divertire e intrattenere senza mai perdere di vista la non-morale complessiva.
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