Alla morte del direttore di un importante periodico, ne vengono proposti i reportage più incredibili e interessanti.
Alla morte del direttore di un importante periodico, ne vengono proposti i reportage più incredibili e interessanti.
Vero e proprio omaggio all'arte e al gusto della narrazione, cinematografica o giornalistica che sia, The French Dispatch è forse l'opera più anarchica, personale e ambiziosa di Wes Anderson (Grand Budapest Hotel, 2013; L'isola dei cani, 2018). L'autore mette in campo, portandoli all'estremo, tutti gli elementi che hanno reso riconoscibile il suo stile, dalle architetture simmetriche e sezionate alla raffinatezza quasi artificiosa di dialoghi e costumi, fino all'ossessione per la Mitteleuropa e la Francia. Il riferimento alla Nouvelle Vague e al cinema francese è qui più presente che mai, nelle immagini e nei dialoghi, così come nell'utilizzo espressivo del mezzo cinematografico. Oltre a riprendere il cinema muto in alcune sequenze comiche, Anderson cita soprattutto se stesso, nelle tematiche e nelle immagini. Il soggetto, antologico e metanarrativo per sua natura, consente sperimentazioni e riflessioni su tutti i versanti. La prima sequenza, dove si viene introdotti alla città di Ennui, è un omaggio al variegato mondo di ambientazioni e personaggi sopra le righe tipico di Anderson. L'episodio dell'artista carcerato è una meditazione ironica sul conflitto fra artista e commercio, stile e comunicabilità. L'intellettualismo fine a se stesso e l'idealismo altruista sono raccontati nel magnifico episodio delle rivolte studentesche, che da storia rivoluzionaria si risolve in una celebrazione dell'amore e della forza giovanili. L'ultimo racconto rappresenta infine un omaggio al buon gusto come soluzione alla solitudine e ai conflitti. Anderson parla del proprio cinema, senza mai menzionarlo: lo maschera da arte del reportage, della pittura, della poesia e della cucina. Nel personaggio chiave di Bill Murray, editore che non abbandona mai nessuno dei suoi protetti, è facilmente ravvisabile Anderson stesso.
Dal punto di vista registico, Anderson alterna con disinvoltura, senza però mai perdere il controllo, tecniche e stilemi: alle sequenze con attori in carne ossa si alternano ora disegni, ora scene animate, fino ad arrivare alla composizione di veri e propri tableaux vivant, in cui la natura dinamica del cinema viene sospesa. Primi piani degli attori con sguardo in macchina, cambi di formato e rapidi passaggi dal bianco e nero al colore rendono il film parecchio movimentato dal punto di vista visivo. Il controllo della cinepresa è quindi impeccabile, così come la capacità di nobilitare la variegata fotografia del fidato Robert Yeoman, che dà prova di sé sia nei colori pastello che nell'elegante bianco e nero. Anderson omaggia se stesso anche nella scelta dei collaboratori, tutti storici e associabili alle sue opere: il premio Oscar alla scenografia Adam Stockhausen (Il ponte delle spie, 2015) per le raffinate ambientazioni simil-alsaziane, la quattro volte vincitrice di una statuetta Milena Canonero (Barry Lyndon, 1975; Carnage, 2011) per gli sfiziosi capi d'abbigliamento e il versatile, nuovamente pluripremiato, Alexandre Desplat (L'ufficiale e la spia, 2018) per la variegata colonna sonora.
La sceneggiatura è l'aspetto più difficile da valutare dell'opera.
Gli episodi sono tutti esercizi di stile di alto livello, con l'ultimo che forse rappresenta l'anello relativamente più debole anche per il posizionamento oltre l'ora e mezza di film. La rapidità dei dialoghi e il loro essere così raffinati da suonare comici di per sé assicura un ritmo narrativo sempre alto malgrado la verbosità: laddove risulta effettivamente complesso tenere il passo, sopperiscono le immagini, che in Anderson valgono più della parola. D'altra parte l'estrema frammentazione dei racconti, che più che ad un'antologia fa pensare a un collage, finisce in più punti per disperdere l'efficacia narrativa e smarrire il punto tematico del film. The French Dispatch è tutt'altro che fine a se stesso, ma rischia di sembrarlo soprattutto agli occhi di chi presume già di sapere cosa aspettarsi dal regista. Nel carosello variegato di personaggi (taluni indimenticabili), viene infine paradossalmente sacrificato quello del protagonista editore, che si limita ad apparire all'inizio e alla fine di ogni episodio.
Fra gli aspetti più evidenti, e pubblicizzati, del film vi è inoltre il cast, che rappresenta una vera e propria sfilata di celebrità dell'universo di Anderson e in generale della cinematografia contemporanea. Il regista utilizza gli attori come tasselli espressivi del proprio mosaico complessivo, talvolta facendoli apparire per pochi minuti. Questo gioco, che può apparire nuovamente dispersivo, riesce però nel suo intento di spiazzare lo spettatore, intento a riconoscere ora Edward Norton, ora Christoph Waltz, appena un minuto prima che questi scompaiano dalla scena.
Tuttavia Anderson, proprio come il personaggio di Bill Murray, è in grado di nobilitare i propri interpreti anche dedicando loro poco spazio: fra le inquadrature più eleganti e iconiche del film, anche per l'utilizzo del colore, vi è la visione degli occhi di Saorsie Ronan dalla fessura della porta, un delicato omaggio a un'attrice che pure resta in scena complessivamente poco più di un minuto. Gli interpreti principali sono poi scelti con grande cura estetica, quasi con l'intenzione di raccontare tutto di loro prima ancora di farli agire: Benicio del Toro è identificato come artista geniale e trasandato fin dalla sua corporatura alla Klimt, la statuaria Lea Seydoux incarna la crudele perfezione dell'idea artistica e il dandy Timothée Chalamet si presenta da subito, con il profilo che ricorda Bob Dylan e la sigaretta costantemente alle labbra, come il prototipo del poeta rivoluzionario e un po' presuntuoso.
Più estetico che narrativo, più riflessivo che comunicativo, The French Dispatch è probabilmente il punto di maggiore libertà artistica e controllo totale della produzione nella carriera di Anderson. Tutto ciò che può sembrare un lusso, dalle scenografie al cast, viene messo in campo per il divertimento dell'autore prima ancora che del pubblico. Il film, nella sua fragile bellezza, resta però anche un atto d'amore alla capacità di raccontare storie: arte, sembra dirci Anderson, per cui non esistono giustificazioni al di là del puro gusto di raccontarle.
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