Un gruppo di personaggi, tutti collegati fra loro, si ritrovano bloccati dalla neve in un emporio isolato negli Stati Uniti appena reduci dalla Guerra civile.
Un gruppo di personaggi, tutti collegati fra loro, si ritrovano bloccati dalla neve in un emporio isolato negli Stati Uniti appena reduci dalla Guerra civile.
Ottava fatica di Quentin Tarantino (Pulp fiction, 1994; C'era una volta a… Hollywood, 2019), che ne firma anche soggetto e sceneggiatura, il film nasce come piéce teatrale e ne mantiene l'impianto. La divisione in atti, l'ambientazione prevalentemente al chiuso (carrozza ed emporio) e la fittissima rete di dialoghi e interrelazioni fra i pochi personaggi presenti ne dimostrano l'origine. Ciò dà adito all'unico vero difetto del film, l'estrema dilatazione dei tempi congiunta alla staticità: tutt'altro che un problema, in realtà, se si considera quanto la macchina della suspense, espressa attraverso incedere dialogico, incessanti colpi di scena e disvelamenti, non perda quasi mai colpi fino al destabilizzante finale. Nel quale, dopo un'estenuante attesa, lo spettatore in cerca di splatter viene investito da un quantitativo di violenza tanto esagerata da risultare grottesca e strappare, anche al più morigerato dei fruitori, più di una risata.
Come ogni film di Tarantino, autore ironicamente auto-compiaciuto della propria cultura narrativa/visuale e maestro del pastiche postmoderno, anche questo si presta a più letture. In primis, si tratta di un omaggio al filone thriller della «stanza chiusa», che va dà Agatha Christie a Sleuth – Gli insospettabili (2007): l'azione si svolge fra personaggi limitati in spazi opprimenti e isolati, giocando sui molteplici inganni e sulle svolte a sorpresa (Jody sotto al pavimento). In secondo luogo, è un omaggio al genere western, forse meno evidente rispetto al precedente Django Unchained (2012) per le contaminazioni horror e mystery ma presente in almeno tre elementi: l'ambientazione, con la carrozza iniziale che rimanda a Ombre rosse (1939) di John Ford, lo stallo alla messicana finale e la colonna sonora da Oscar (più che meritato) di Ennio Morricone, compositore di Sergio Leone (Trilogia del dollaro, 1964-66; Trilogia del tempo, 1968-84) che tanto ha ispirato Tarantino.
A livello meno cinematografico e più politico, la vicenda costituisce una riflessione sulla storia della violenza negli Stati Uniti: prendendo come riferimento cronologico l'evento più sanguinario della moderna storia del Paese, il film tocca l'argomento della discriminazione razziale verso neri, sudamericani, donne ed emarginati.
Tutt'altro che una lettura faziosa, in quanto non è casuale che, nella prima inquadratura del film, il regista di Django Unchained ci mostri un crocefisso nero, al bordo della strada, ricoperto da un cappuccio di neve bianco (riferimento al KKK): tale simbologia del colore, presente anche nei manti dei cavalli (nero e bianco, nuovamente), si concretizza poi nelle storie personali di vendetta e rivalsa dei personaggi.
Tarantino, oltre che abile selezionatore di collaboratori e scrittore di grandi doti, si conferma anche regista sicuro delle proprie scelte stilistiche. La pellicola (perché di pellicola da 70mm, letteralmente, si tratta per alcune versioni del film) presenta un uso straniante di lenti anamorfiche Panavision, solitamente adatte ai grandi campi lunghi in esterno, che sottolineano l'ossessivo isolamento entro i confini dell'empoprio, vero e proprio simbolo delle relazioni in tensione che legano i personaggi. Un plauso va quindi alla fotografia di Robert Richardson, D.o.p. di Tarantino dagli anni 2000 in poi: i pochi esterni, completamente candidi, sono resi con sentimento di poesia e mistero, mentre negli interni la macchina da presa si posiziona ora sull'espressività degli interpreti, ora sul calore cromatico dei vestiti, del legno, del fuoco acceso, del sangue.
Visivamente, vanno sottolineati pertanto gli ottimi costumi di Courtney Hoffmann (Dark shadows, 2012; Captain Fantastic, 2016), che fra iperrealismo e fedeltà storica vestono gli attori. I quali, peraltro risultano ottimi e a proprio agio nelle rispettive parti. Ciò si deve anche, in verità, a due fattori esterni: da un lato, l'esaustiva contestualizzazione di ogni singolo personaggio, di modo che nessuno risulti più importante o trascurato, meno delineato o più moralmente irreprensibile; in secondo luogo, l'affezione di lunga data che lega Jackson, Roth e gli altri al collega Tarantino, che dei suoi attore feticcio sa sfruttare l'essenziale creando sempre nuove interpretazioni iconiche.
In definitiva, The Hateful Eight presenta ciò che ci si aspetta da un film di Tarantino, ma lo confeziona con più maturità, controllo tecnico e innovazione. Tutt'altro che un'opera fatta apposta per accontentare i fan, si tratta di un salto stilistico e di argomento ben più riuscito rispetto all'ultimo, per molti versi criticabile, C'era una volta… a Hollywood.
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