La vicenda esistenziale e biografica di un malavitoso irlandese, attraverso la Storia degli Stati Uniti dagli anni ‘50 giorni nostri.
La vicenda esistenziale e biografica di un malavitoso irlandese, attraverso la Storia degli Stati Uniti dagli anni ‘50 giorni nostri.
The Irishman è stato fra i film più attesi dell'anno. Forse per il nome del regista, Martin Scorsese (Taxi driver, 1976; Shutter Island, 2010) o per la presenza di un terzetto storico del filone gangster: Al Pacino, Joe Pesci e Robert De Niro. In aggiunta, per tutto lo sciame di polemiche che ha anticipato e seguito l'uscita dell'opera nelle poche sale e su streaming: in primis, il ricorso di Scorsese, maestro del vecchio cinema, alla piattaforma di produzione e distribuzione Netflix. Ancor di più, la polemica fra Scorsese e il Marvel Cinematic Universe (qui la nostra recensione di Avengers: Endgame, 2019): erroneamente interpretata come giudizio estetico di un venerabile maestro ormai prigioniero dell'età, in realtà il giudizio del regista riguarda il monopolio, economicamente e culturalmente rischioso, assunto oggi dalla Disney-Marvel.
Nonostante quello che, più che un commento soggettivo, è un'analisi lucida delle contraddizioni attuali del sistema produttivo hollywoodiano, Scorsese si è attirato le critiche delle nuove generazioni. Rispetto alle quali, The Irishman poteva essere un buon canale di apertura, proprio perché distribuito da Netflix. Purtroppo, per quanto osannato da parte della critica cinefila, l'ultimo film di Scorsese non centra completamente gli obiettivi e le aspettative.
Il soggetto di partenza, dal romanzo omonimo di Charles Brandt, offre spunti interessanti. Potenzialmente avrebbe potuto essere un grande riassunto dell'epica e delle tematiche scorsesiane, oltre che di sessant'anni di Storia americana. In effetti, il film è pervaso di nostalgia, lirismo e riflessioni di fronte alla morte personale, collettiva, di un'epoca. Nella costruzione delle dinamiche di amicizia, tradimento e scorrere del tempo, incarnato dai tre anziani quanto ottimi interpreti principali, la sceneggiatura dà il proprio meglio.
Dove fallisce in pieno, invece, è nella progettazione della storia e delle tempistiche di narrazione. Si è spesso discusso ironicamente su chi, da utente abituale di Netflix, è abituato a fare binge-whatching di lunghe serie televisive e mal sopporta le “appena” tre ore e mezza di film d'autore: il problema, in realtà, è proprio che un film di tale durata non solo non è necessario, ma risulta datato. La vicenda, in sé per sé, è lineare: i tempi vengono, più che dilatati, rimandati con alcuni dialoghi e momenti piuttosto pretestuosi. Di contro, se i tre personaggi principali sono ben tratteggiati, non si può dire lo stesso di quelli secondari.
La struttura narrativa, se legata al medium (lo streaming), tenendo presente che come dice Marshall McLuhan «il medium è il messaggio», dà l'idea di una storia che avrebbe funzionato molto meglio, oggi, come miniserie
in questo, Scorsese fallisce la prova coi tempi, e coi mezzi, attuali. In tal senso, l'atmosfera di senescenza e ricordo del film si fa ancora più dolorosa, se si pensa che gli anni passano non solo per i personaggi scorsesiani ma anche, e soprattutto, per il grande Scorsese.
Detto ciò, vi sono altri aspetti eccellenti a risollevare la qualità complessiva del film. Se la sceneggiatura di Steven Zaillian (Risvegli, 1990; American Gangster, 2007) è lenta senza motivo, farraginosa e troppo diluita nei conflitti, la regia di Scorsese rimane maestosamente perfetta. Senza inutili orpelli, quasi ogni inquadratura sembra studiata alla perfezione: l'utilizzo di piani sequenze, soggettive e primi piani espressivi dimostra come la scuola della New Hollywood anni '70 abbia ancora da insegnare tutt'oggi. Scorsese riesce, con il solo utilizzo della macchina da presa, a coniugare il violento realismo di Taxi driver, il divertimento ironico e satirico di The wolf of Wall Street (2013) e la riflessività di Silence (2016). In comune con questi ultimi due citati, peraltro, la mano del direttore di fotografia Rodrigo Prieto: con abilità, gli interni lussuosi delle cosche mafiose vengono resi con generose pennellate di luce che fanno da contraltare al quasi monocromatismo delle scene con De Niro anziano, pervaso da un candore che ne anticipa il sudario sepolcrale.
Ottimi, inoltre, i costumi di Christopher Peterson e Sandy Powell, tre volte premio Oscar e ricordata, fra gli altri, per Velvet goldmine (1998) e La favorita (2018): non è operazione facile saper seguire il corso dei decenni cruciali del secondo Novecento e renderlo attraverso gli abiti, eppure qui il risultato può considerarsi pienamente raggiunto. Così si può dire per le scenografie di Bob Shaw, eleganti, accurate e gradevoli alla vista.
Ulteriore fallimento, tuttavia, stavolta sul tanto apprezzabile lato estetico, il tentativo di ringiovanire gli attori: sia la CGI di Pablo Helman (Star Wars: Episodio II – l'attacco dei cloni, 2002; La mummia, 2017), sia il trucco risultano inefficienti, quando non involontariamente clowneschi, sui visi di Pesci, De Niro, Pacino. I quali, come loro solito, regalano tre interpretazioni differenti e parimenti memorabili: appare quasi un delitto, per questo motivo, impedirli con superflue appendici digitali che non ne cambiano nemmeno sostanzialmente, a vista, l'età. Eppure, è impressionante notare come, più che la sceneggiatura, siano le espressioni vibranti di Al Pacino o le rughe di disillusione di De Niro a marcare davvero il senso e la morale del film.
In conclusione, sulla falsariga del ricercato effetto-nostalgia, si segnalano le ottime musiche di Robbie Robertson. Il quale, oltre a essere fra i migliori chitarristi del mondo secondo la rivista “Rolling Stone”, collabora con Scorsese fin dai tempi di Toro scatenato (1980). Ora commenti drammatico, ora contrappunto ironico, la colonna sonora riesce a ricreare le atmosfere epocali e, nuovamente, a comunicare ciò che la sceneggiatura non riesce pienamente. The Irishman, in definitiva, potrà risultare deludente per svariati, è più che validi, motivi: tuttavia, dove si vuole far sentire, la maestria del cinema di un tempo si fa sentire e incanta lo spettatore.
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