Un reduce di guerra con problemi comportamentali intavola un rapporto particolare con il carismatico fondatore di una setta.
Un reduce di guerra con problemi comportamentali intavola un rapporto particolare con il carismatico fondatore di una setta.
Paul Thomas Anderson, dopo Il petroliere (2007), esplora nuovamente il cuore di tenebra dell'America partendo da una parabola personale di ascesa e caduta. Qui però i protagonisti sono due, la gloria non è quella di chi possiede petrolio ma di chi ha la chiave della salvezza spirituale, e il senso di ineluttabile tragedia si fa più diluito che nel predecessore. A contare maggiormente è la dialettica servo/padrone, o padre/figlio: ne Il petroliere il figlio era un errore del personaggio principale, in The master è il co-protagonista. Si ritrova, declinata in senso più morboso e polemico, la riflessione sulla dipendenza affettiva che sarà poi al centro de Il filo nascosto (2017). Dodd, nello specifico, si rifà alla figura storica di Lafayette Robb Hubbard, fondatore di Scientology: ad Anderson tuttavia non interessa svelare le ombre e i possibili inganni dietro a una confraternita para-religiosa, ma riflettere sul potere. Che, inevitabilmente, è connesso all'impotenza: Dodd maschera di carisma, successo e (patria) potestà le proprie paure, la propria sudditanza, la propria castrazione: è impossibile non intravedere, nel rapporto con la moglie così come con Freddie, colto da aneliti di mascolinità tossica, il malcelato rifiuto di una omosessualità repressa. Le cure spirituali, la storia personale dei protagonisti, i loro handicap, sono funzionali a un racconto di rapporti di forza. Capaci, questi ultimi, di compromettere il singolo individuo così come un intero popolo.
Anderson, come scrittore, ha sempre giocato con le possibilità e i limiti della sceneggiatura: che in questo caso, forse, presenta l'unico difetto imputabile al film. Lo storytelling infatti si dilata prendedendosi tempo, quasi volesse esasperare lo spettatore: ne risulta che tutta la parte centrale del film appare leggermente confusa e troppo ricorsiva, per un soggetto semplice che si basa, più che sulle proprie potenzialità, sul modo in cui viene sviluppato. Tuttavia, la potenza di Anderson sta nella descrizione dei personaggi attraverso dialoghi e situazioni, qui ad alti livelli: le caratterizzazioni di Freddie e Dodd, dei loro impulsi violenti e nascosti, avviene attraverso pennellate riconoscibili e incisive. Basti citare la scena dell'interrogatorio, in cui vengono chiarite le posizioni dei due individui, o quella del carcere quasi paradossale nella propria cupa comicità (i due appaiono qui come una sorta di duo à la Stanlio e Ollio, ma malati e compromessi). Dialoghi sferzanti e archi narrativi dei singoli ben descritti, dunque, che lasciano spazio all'attenzione dello spettatore di farsi coinvolgere dalle loro parabole psicologiche. Se prima si è citata la tragedia classica come fonte di spunto, qui potrebbe sovvenire anche certa grande letteratura americana (Hermann Melville): in realtà l'una, a ben, vedere, è una derivazione dell'altra, per l'imponente essenzialità del dramma e l'ineluttabile, e Anderson rientra a pieno titolo quale erede di entrambe. È quindi veniale qualche deviazione interna a una storia che, peraltro, si apre e si chiude con una circolarità simbolica di grande suggestione (il mare).
Dal punto di vista registico, la messa in scena è apicale. La cura formale delle inquadrature e degli elementi scenici, grazie anche all'ottima fotografia di Mihai Malaimare Jr., è maniacale senza mai apparire manierista. Come ne Il petroliere, dove si alternano i grandi spazi desertici all'aperto e l'angustia delle case e delle miniere, qui fanno da padroni proprio gli interni, eleganti e curati da David Crank e Jack Fisk (Mulholland Drive, 2003; Revenant – Redivivo, 2015).
La regia di Anderson è riconoscibile dall'utilizzo di campi lunghi evocativi, piani sequenza e movimenti di macchina fortemente espressivi alternati a primi piani che sottolineano e valorizzano le interpretazioni:
si segnala la scena della modella nel grande magazzino, di cui la cinepresa segue i movimenti dando l'idea di danzare assieme. Da un punto di vista tecnico, vanno menzionati anche il montaggio di Leslie Jones e Peter McNulty e gli ottimi costumi a cura del due volte premio Oscar Mark Bridge (nel 2012 per The Artist, nel 2017 proprio per Il filo nascosto).
Altro pregio del film, forse ciò che più l'ha reso noto, è il duo di interpretazioni principali costituito da Seymour-Hoffman e Phoenix. Entrambi danno vita a personaggi ambigui e complessi, tanto respingenti quanto fragili: il primo mostra il proprio eclettismo sia nelle sequenze drammatiche che in quelle più grottesche e leggere (a scena in cui Dodd canta e balla in mezzo agli astanti di un ricevimento); il secondo, anni prima di Joker (2019), conferisce a un proprio ruolo mosse animalesche, espressioni stralunate e contemporaneamente una straziante è tragica umanità. La sintesi di perfezione fra regia dialoghi e recitazione si ha nel summenzionato momento del colloquio conoscitivo, in cui i ritmi tensionali raggiungono il massimo per lo spettatore. Va sottolineato, tuttavia, che anche le interpretazioni secondarie, per quanto abbiano meno spazio in termini di minuti sullo schermo, sono assolutamente all'altezza. Adeguate alla situazione, infine, le musiche di Jonny Greenwood alla sua terza (di quattro) collaborazioni con Anderson.
The master, in definitiva, è un film di grande portata narrativa e filosofica. Non basterebbe forse una visione a esaurire tutti i possibili spunti emotivi e di pensiero che ne possono scaturire, ma già il primo impatto comunica quanto rientri a pieno titolo in quel grande romanzo americano che Anderson, attraverso la propria filmografia, ha scritto.
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