Un curatore di un museo di arte contemporanea sta per inaugurare un'installazione di nome The Square, cha ha lo scopo di invitare la gente all'altruismo e alla condivisione.
Un curatore di un museo di arte contemporanea sta per inaugurare un'installazione di nome The Square, cha ha lo scopo di invitare la gente all'altruismo e alla condivisione.
Tre anni dopo l'ottima accoglienza riscossa da Forza Maggiore (Premio della Giuria nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2014), l'ultima fatica di Ruben Östlund consente al regista svedese di aggiudicarsi la Palma d'Oro, battendo la concorrenza di colleghi del calibro di Noah Baumbach (The Meyerowitz Stories), Michael Haneke (Happy End), Bong Joon-ho (Okja) e Yorgos Lanthimos (Il Sacrificio del Cervo Sacro). Il film in esame si propone di analizzare due macro-temi principali, fra loro legati in modo arguto e grottesco. Il primo è quello dell'arte contemporanea, apprezzata da molti, incompresa forse da tutti (messaggio che sembra emergere sin dalla prima scena, quando il curatore del museo non sa cosa rispondere alle curiose domande della giornalista); il secondo, più profondo, è invece di stampo sociale e consiste nel drammatico conflitto interiore tipico dell'alto borghese progressista in merito al rapporto con le classi sociali più basse. Questa figura, impeccabilmente incarnata dal protagonista (vedasi a titolo esemplificativo la scena del video di scuse al ragazzino), risulta costantemente sospesa tra sincero altruismo verso il prossimo e inconsapevole ipocrisia dettata da intimo egoismo.
Ponte di collegamento posto tra queste due macro-aree semantiche è l'installazione denominata The Square, testualmente “un santuario della fiducia al cui interno condividiamo tutti gli stessi diritti e doveri”.
Ciò che occorre in primo luogo rilevare è la necessità sociale di quest'opera d'arte contemporanea. Infatti, in nessuno Stato democratico e pluralista che funzioni, essa avrebbe motivo di esistere. Gli stessi diritti e doveri dovrebbero vigere in tutto il territorio nazionale, non all'interno di un quadrato di 4 metri per 4 collocato in un museo. Promuovere quest'opera vuol dire quindi denunciare un problema sociale rilevante. Da questo assunto muovono due grotteschi paradossi: il primo è l'ipocrisia dell'alta borghesia, che inizialmente applaude all'iniziativa, pur ignorando i numerosi mendicanti di Stoccolma su cui la regia non esita ad indugiare; il secondo è la strategia pubblicitaria, che pur di riuscire a catturare l'attenzione del pubblico generalista finisce con il capovolgere il messaggio di fondo all'insegna del mero sensazionalismo. Ecco allora come The Square, da santuario della fiducia diventa simbolo di morte, alla stregua delle numerosissime democrazie che, nel corso degli anni, hanno dimostrato il loro fallimento, non riuscendo a trasformare i nobili principi di rango costituzionale in realtà.
La sceneggiatura della pellicola in questione riesce a veicolare magistralmente questo complesso messaggio di fondo, ponendo in evidenza le infinite contraddizioni della società contemporanea. Ciò che forse può lasciare perplesso lo spettatore è il ricorso a un simbolismo non sempre chiaro e talora forse troppo ambizioso. Esempio lampante in tal senso è l'enigmatica figura della scimmia, utilizzata per un'inversione di ruoli che ha del grottesco, ma anche del satirico: se da una parte si mostra l'animale, antenato dell'uomo, che riesce a comportarsi da essere pienamente senziente, in grado di leggere un quotidiano o addirittura di dipingere (forma d'arte classica, ormai quasi dimenticata), dall'altra vi è l'uomo, che pur rappresentando da un punto di vista naturalistico l'evoluzione proprio della scimmia, sul piano artistico sembra essere regredito, al punto che il comportarsi da gorilla selvaggio diventa una performance di arte contemporanea (con tutti i rischi che questo comporta). Dal punto di vista narrativo, gli unici limiti possono essere riscontrati nella relazione tra il protagonista e la giornalista, misteriosa, conturbante, ma poco approfondita e a tratti estranea rispetto al messaggio di fondo e una durata forse eccessiva, soprattutto se si considera la sensazione di storia irrisolta che lo spettatore percepisce al termine della visione.
Sul piano tecnico la regia di Östlund risulta estremamente pulita e distaccata, senza tuttavia mai puntare alla perfezione o all'ordine assoluto. La linearità delle inquadrature è evidente, ma la simmetria viene spesso volutamente evitata, al fine di infondere negli occhi di guarda un maggiore senso di dissociazione e straniamento rispetto all'assurdità di quello a cui sta assistendo. Solo nel finale il regista sembra volersi concedere un virtuosismo di troppo, forse barocco, ma visivamente splendido, realizzando un eccezionale “effetto vertigo” invertito (La Donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1954). La fotografia punta invece su toni morbidi e luminosi, che rendono più intensi i rari momenti bui. Degni di nota risultano infine i temi musicali, che incrementano l'effetto straniante perseguito dalla regia. Le interpretazioni del film sono nel complesso più che discrete, senza particolari pregi individuali. Elisabeth Moss non raggiunge i livelli di alcune sue prove successive (come in Noi, 2019, o L'uomo invisibile, 2020), forse proprio a causa dei piccoli problemi di scrittura riguardanti il suo personaggio, mentre Claes Bang è abile ad incarnare i dubbi esistenziali che attanagliano il suo personaggio.
Per tutti questi motivi, The Square rappresenta un'opera estremamente interessante del panorama cinematografico contemporaneo, soprattutto per la sua brillante capacità di utilizzare il declino dell'arte come metafora della regressione etica e sociale dell'uomo moderno, in piena crisi valoriale e di identità.
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