Una famiglia in esilio nel New England rinascimentale viene a contatto con fenomeni soprannaturali: qualcosa di sinistro li tiene in agguato.
Una famiglia in esilio nel New England rinascimentale viene a contatto con fenomeni soprannaturali: qualcosa di sinistro li tiene in agguato.
Esordio al lungometraggio per Robert Eggers, di cui si attende ancora l'uscita in Italia di The lighthouse (2019). Con quest'ultimo, The vvitch condivide le atmosfere claustrofobiche, il ricorso a cast e location ridotti all'osso e l'estrema cura autoriale delle ambientazioni. The vvitch si inserisce, a modo proprio, in quella sorta di new wave del genere horror che quest'anno ha visto in sala titoli più che interessanti come Noi di Jordan Peele e Midsommar – Il villaggio dei dannati di Ari Aster. Caratteristiche di questa ondata sono l'approccio più profondo che sensazionalistico alla materia, la forte impronta personale dell'autore il riferimento più o meno esplicito a tematiche attuali e il rifiuto di jump-scare e altri escamotage troppo stereotipati.
Nel film in questione, l'aspetto sicuramente più riuscito è quello visivo. La meravigliosa fotografia di Jarin Blaschke (Credo negli unicorni, 2014) riesce a sfruttare sia gli angusti interni che gli altrettanti tetri esterni. La luce naturale, i paesaggi innevati e le scenografie storicamente accurate di Craig Lathrop e Mary Kirkland ricreano, per colori e composizione, i quadri fiamminghi di ambientazione rurale. Eccellenti anche i costumi di Linda Muir, che assieme a quanto sopra contribuiscono a ricreare con perfezione filologica e fedeltà le ambientazioni d'epoca.
Venendo al ruolo di Eggers, la regia è altrettanto efficace.
Una mano forse acerba ma già sicura di sé, consapevole dei propri modelli, dirige la macchina da presa con maestria, alternando stasi e dinamismo
(le riprese delle lotte con i caproni, particolarmente difficoltose a girarsi, sortiscono l'effetto desiderato).
Il soggetto, a sua volta, è potenzialmente interessante: partire da documenti autentici dell'epoca non per raccontare un effettivo caso di possessione o stregoneria, ma per studiare gli effetti delle ristrettezze sociali, mentali e religiose sulla psiche e la convivenza. La sceneggiatura doveva invece rispondere a un intento più rischioso: creare uno sviluppo efficace a partire da pochi, ma incisivi elementi di contesto. Purtroppo, l'impressione è che il contesto ci sia, la storia no. La perfezione dei quadri è a scapito di un effettivo sviluppo, in lunghezza e profondità delle vicende: se in alcune situazioni il non detto è funzionale (nell'assenza di dialoghi, nei pensieri mai dichiarati dei personaggi), per la maggior parte del film inficia, più che la chiarezza, il risultato stesso. Nell'estrema sintesi, talora lacunosa, dell'opera non si ha tempo di empatizzare con i personaggi, né di raggiungere un vero e proprio climax: l'inquietudine all'inizio è presente e si fa percepire dallo spettatore, ma non segue poi una vera evoluzione. La scelta di non mostrare le streghe e il Diavolo se non per pochi accenni poteva essere ottima, e in buona parte lo risulta: perché allora inserirli negli ultimi cinque minuti di film, con tanto di voice over del demonio?
Il simbolismo degli elementi di trama (gli animali in particolare) non è certo originale, ma risulta efficace soprattutto visivamente; interessanti anche i richiami alle fiabe mitteleuropee (il cappuccio rosso della prima strega). Le interpretazioni, per quanto limitate anche dalle caratteristiche di sceneggiatura, risultano inadeguate.
The vvitch condivide ciò che secondo Sigmund Freud ha un moncherino: è inquietante e perturbante proprio per tutto ciò che manca. Potremmo anzi dire: The vvitch è un horror efficace ma si sentono delle mancanze, forse troppe. La speranza è che Eggers riesca a portare avanti il proprio stile, perfezionandolo: senza dubbio, di quella che sopra abbiamo definito new wave dell'orrore, il giovane regista potrebbe avere un ruolo, in futuro, ancora più presente.
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