Una ballerina con una placca di titano nel cranio è autrice di vari delitti che la costringono a cercare una nuova identità.
Una ballerina con una placca di titano nel cranio è autrice di vari delitti che la costringono a cercare una nuova identità.
Vincitore controverso al settantaquattresimo Festival di Cannes, Titane è un'opera ibrida in bilico fra il dramma e l'immaginario cyberpunk. Il tema del post-umanesimo e della fusione fra macchina e uomo è evidente fin dall'inizio, quando alla protagonista viene impiantata una placca del materiale che dà il titolo al film: è quello il momento in cui la differenza ontologica far naturale e artificiale viene annullata in favore della realtà cibernetica. Il trinomio morte – sesso – meccanismo, quasi fosse direttamente ripreso da un racconto di James Ballard, raggiunge il suo primo apice nell'amplesso fra umano e automobile e il secondo nella sequenza del parto di un essere che, più che neonato, ricorda l'homunculus della tradizione alchimistica, antesignano del cyborg in quanto contemporaneamente umano e macchinico: figura, quest'ultima, ripresa poi vagamente anche dall'inquadratura del bambino carbonizzato in una casa in fiamme. A ricordare certe narrazioni cyberpunk è infine l'ambientazione iperrealista, degenerata, squallida dei nightclub, delle stazioni, della caserma dei pompieri che, fra feste e danze sui camion, assomiglia nuovamente più a un locale underground.
Il primo significato dell'opera è quindi una riflessione sulla fluidità delle definizioni e delle identità di genere in uno scenario fantascientifico: la protagonista, nata femmina e diventata cyborg, transita al genere maschile per poi annichilirsi in un tripudio dove organico e metallico, maschile e femminile, si fondono. La seconda tematica ricorrente è l'accettazione delle differenze da parte del padre adottivo, con una significativa contraddizione interna: il genitore, non naturale ma adottivo, impara ad accettare la propria nuova prole attraverso un percorso di relazione e ridefinizione dei canoni, quasi a significare che la parentela è un fatto non definitivo, ma performativo.
Entrambe le tematiche sono declinate a livello di sceneggiatura soprattutto nella seconda parte del film. Nella prima l'autrice e regista Julia Ducournau (Raw, 2016) opta per un registro horror che alterna violenza e sadica ironia ma non riesce a legarsi ottimamente con gli sviluppi successivi della trama. Il finale, eccezionale fatta per l'intensità della scena del parto, risulta invece frettoloso e decisamente meno chiaro a livello di intenti. Il ruolo attivo del padre nel momento della gestazione lascia parecchi dubbi non solo sulla morale del film, ma anche sulla logica interna al discorso di rinuncia dei canoni prestabiliti: davvero, dopo aver eliminato la necessità di distinguere uomo e macchina, biologia e canoni sociali, risulta invece obbligatorio aggrapparsi alla presenza di una figura familiare? In generale il difetto della modalità di racconto risiede in una non chiara struttura temporale e logica, i cui elementi sono troppo scollegati fra loro, soprattutto in relazione al complesso patto narrativo con lo spettatore.
A livello tecnico, invece, è difficile trovare difetti. La regia è netta, autoriale senza essere barocca, tanto funzionale da ricordare i meccanismi di un'automobile.
La violenza che ha scandalizzato la platea di Cannes è trattata con semplicità chirurgica mentre i richiami interni e ricorrenti del film aiutano a costruire una coerenza più di quanto non faccia la sceneggiatura. Di tutti gli elementi caratteristici, il fuoco è quello più evidente: presente sulla carrozzeria delle automobili, ritorna nella scena dell'omicidio dei genitori, nelle sequenze di incendio e nello stesso mestiere del padre adottivo, nonché nel tentativo di quest'ultimo di darsi fuoco. Altro gioco registico ricorrente e notevolmente gestito è il ricorso a riflessi e specchi, quasi a rimandare alla proprietà riflessiva di certi metalli. Risulta quindi di alto livello la fotografia, cupa e nuovamente cyberpunk, di Rubens Impsen.
Ottimo il montaggio sonoro, così come le musiche di Jim Williams e il ricorso a brani non originali spesso con fine ironico: la scena del triplice omicidio, accompagnata da un intermittente Nessuno mi può giudicare, è di sicuro effetto. Degne di nota infine le interpretazioni dei protagonisti, su cui spicca un ottimo ed espressivo Vincent Lindon, alle prese con un personaggio tanto intenso quanto, come detto sopra, ingombrante a livello di sceneggiatura.
Titane è sicuramente un'opera originale, i cui intenti sono meno criptici del previsto e la cui estetica è coerente. La complessità dell'immaginario di riferimento è gestita con accuratezza, mentre meno efficace è quella delle tematiche e dei significati messi in moto. Probabilmente ben lontano dal riuscire a fondare un cinema post-umano (al cui intento si sono avvicinate ben altre e più classiche opere cyberpunk), Titane potrebbe comunque risultare un buon punto di riferimento, anche in virtù dei suoi difetti, per un nuovo approccio autoriale alla materia.
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