Un italiano viziato, malandrino e ignorante si trova a percorrere la tratta dei migranti dal Kenya all'Unione Europea.
Un italiano viziato, malandrino e ignorante si trova a percorrere la tratta dei migranti dal Kenya all'Unione Europea.
Checco Zalone, vero nome Luca Medici, rappresenta uno dei fenomeni più pervasivi, controversi e discussi del cinema italiano recente. Le critiche dei suoi accusatori si sono sempre mosse su due binari distinti: in primis, verso una comicità stereotipa, spesso offensiva è sempre auto-assolutoria; in secondo luogo, una produzione cinematografica di intenti e qualità televisive incapace di varcare i confini d'Italia, con danni all'esportazione del cinema italiano nel mondo e consolidamento di quel duopolio Rai-Mediaset che non ha mai giocato né alla qualità né al portafoglio dei nostri film. Chi lo ammira, invece, sostiene che la sua maschera da italiano medio e tutt'altro che scontata, e che il suo successo di botteghino, per quanto solo nazionale, è un toccasana per le sale italiane in perenne crisi.
Il suo precedente Quo vado? (2016), regia di Gennaro Nunziante, era fino a poco fa il film con più incassi su suolo nazionale. Una escalation incontrovertibile, se si pensa che Zalone aveva esordito nel cinema solo sette anni prima con Cado dalle nubi (Gennaro Nunziante, 2009). Troppo italiano o giustamente molto italiano? Comico di destra, di sinistra o qualunquista? Genio di un'industria o emblema del suo fallimento? La critica italiana da anni discute in tali termini di Zalone, mentre il pubblico di qualsiasi età, professione e partito lo ama. Così tanto da aver permesso a Tolo Tolo di incassare a quattro giorni dall'uscita più di quanto abbia fatto, nel nostro Paese, Joker (2019). Battendo, peraltro, il precedente record di Zalone.
La critica italiana, o almeno stragrande parte, ha lodato la nuova fatica di Zalone, nonché prima come regista; dove non c'è stata lode, si è concesso perlomeno un tiepido plauso alla maturazione del “comico d'Italia”. Per la nostra redazione, non è una sorpresa che il pubblico sia accorso a vederlo; lo è, semmai, che persino gli esperti del settore l'abbiano apprezzato a visione avvenuta: perché l'anno 2020, quanto a produzione italiana, non poetava aprirsi in modo peggiore.
È difficile scindere, in un film del genere, il valore (anzi, disvalore) tecnico da quello morale. La sceneggiatura, del tuttofare Zalone e di Paolo Virzì (Caterina va in città, 2003; Il capitale umano, 2013) che è però stato allontanato a lavori in corso, fa acqua sotto entrambi gli aspetti. Sotto il profilo tecnico, non esiste letteralmente una storia: o meglio, esisterebbe se non fosse ridotta ad accozzaglia di scene poco divertenti e Checco-centriche, gettando in secondo piano l'odissea dei migranti. I personaggi sono piatti e senza evoluzione, quando non delle macchiette senza spessore: le loro traiettorie, come iniziano, così finiscono e spesso terminano nel bel mezzo del nulla (o del deserto, per restare in tema). A titolo d'esempio, come può un personaggio fondamentale come Oumar, all'inizio vera e propria spalla intelligente di Zalone, scomparire cavandosela giusto con due lacrime? E il reporter francese, che interviene come deus ex machina, che senso ha avuto a livello narrativo, se non mettere in ridicolo i francesi con facili battute calcistiche o, peggio ancora, far passare l'idea che i giornalisti in zona di guerra (compresi quelli defunti) siano dei ciarlatani? La famiglia italiana del protagonista, così scontata da non essere nemmeno divertente, compare pure solo in scene sconnesse senza sviluppo: che il suo senso sia, mascherando Tolo Tolo da film di critica dell'italiano medio e un po' sovranista, distogliere dal fatto che in realtà l'opera di Zalone è profondamente razzista?
Il problema maggiore, infatti, è che quella che doveva essere una favola buonista in cui il protagonista, da egoista, diventa umanitario, è l'esatto opposto. Lasciamo da parte il fatto che sbagliare un plot così trito e ritrito era difficile, e Zalone è stato un genio nel farlo. L'umorismo presente nel film, dando l'idea di suscitare amore e comprensione verso i migranti, fa tutt'altro. Gli indigeni kenioti sono rappresentati con la spocchia di un occidentale che davanti a culture diverse sa solo ridere; il viaggio dei migranti è più simile a una scampagnata picaresca; le comparse africane interpretano quasi esclusivamente il ruolo di ladri, analfabeti, rumorosi, incivili. Esiste, è vero, qualche battuta sul fascismo italiano: il quale viene però rappresentato come una malattia curabile con l'amore. Questo, più che buonismo, è idiozia storica e di scrittura.
Il peggio viene però con le canzoni, composte dal solito Zalone con Antonio Iammarino e Giuseppe Saponari, che, oltre a essere di una qualità musicale e di miraggio infima e a rompere la narrazione senza un continuum logico, sono una escalation di considerazioni vergognose: la prima racconta di come l'Africa si possa salvare solo grazie alla presenza di donne attraenti (il testo di Zalone non è così fine); la seconda, piazzata nel mezzo di un naufragio, fa danzare i migranti in acqua come fossero in un musical, in maniera inopportuna e irrispettosa per quella che, ricordiamo a Zalone, è una tragedia di cui anche la disinformazione è concausa; la terza, con tanto di animazioni e inserita come finale che non si era trovato, spiega come sia meglio nascere occidentali che africani, figli di una cicogna “ubriaca” e di facili costumi. Tutto ciò non è indice di umorismo, ma di razzismo:
Zalone avrebbe dovuto contare fino a tre prima di agire, considerando di avere un pubblico come nessun altro in Italia, composto peraltro anche di bambini le cui idee di geopolitica non sono certo così solide. O forse, a vedere il film, lo sono più di quelle dell'autore.
A conclusione dei difetti di sceneggiatura, bisogna citare il finale meta-cinematografico. Che, come sopra, è sbagliato da qualsiasi punto di vista. Sul versante tecnico, è letteralmente una pezza a tutti i buchi di trama, fili ingarbugliati e contraddizioni disseminate lungo il film. Sul lato politico-morale, mascherato da happy ending multietnico, lascia intendere che la morale del film sia: un uomo bianco può sposare una donna nera, solo se questa parla la sua lingua, la raggiunge in Italia e veste il velo bianco di tradizione occidentale. Se voleva essere spiritoso, Zalone semmai è risultato più filo-colonialista della canzone di regime Faccetta nera, peraltro presente nel film.
Si potrebbero elencare tanti altri difetti del film. La recitazione, per esempio, per cui l'unico a salvarsi è Enrico Mentana nel credibile ruolo di se stesso. Oppure il realismo complessivo, per cui c'è da chiedersi come abbia fatto qualcuno a paragonare Tolo Tolo a La vita è bella (1997): il film di Benigni, per quanto stroncato dalla nostra redazione, aveva il buonsenso (narrativo e morale, nuovamente), nella maldestra messinscena comica dell'Olocausto, di mostrarne almeno i morti; Zalone, fingendosi paladino dell'accoglienza, dimentica di rappresentare l'evento più realistico e tragico della vicenda che lui stesso cerca di raccontare nel film.
Altro macro-difetto, che conferma la natura televisiva e provinciale del film, è la fotografia di Fabio Zamarion: c'è da chiedersi come il Premio David di Donatello 2008 per La sconosciuta (2007) sia riuscito a creare immagini così mediocri pur avendo a disposizione location strabilianti. Quanto al montaggio, che impensabilmente è stato lodato da alcuni critici, il collaboratore di Zalone Pietro Morana non va oltre l'assemblaggio di qualche litorale da vacanza, tanto per cementare un gusto dell'esotico fine a se stesso: bene se il prodotto finale fosse una pubblicità di Costa Crociere, per un film meno.
In definitiva, quello di Zalone a malapena si può definire film. Come si diceva all'inizio, sono autori come lui a infestare un produzione cinematografica altrimenti capace, togliendo fondi e attenzione a registi e interpreti che davvero saprebbero creare opere di qualità ed esportabili (si pensi al recentissimo Pinocchio, 2019, di Matteo Garrone, che a confronto sembra un kolossal hollywoodiano). Si può detestare l'ultimo film per vari motivi, oppure ci si può chiedere come mai la stampa italiana sia così accondiscendente: forse Zalone è davvero un genio. Non del cinema, ma dell'arte di arrangiarsi in Italia: dove spesso, più delle qualità del film, se ne valutano i risvolti che può avere in un qualche talk show televisivo. Non vogliamo però concludere con questa nota poco rassicurante. Il nostro intento, anzi è dare un consiglio a Zalone. Il quale, a pochi giorni dall'uscita del film ha dichiarato che in Italia c'è un «problema di politicamente corretto». Se l'intento di Tolo Tolo era fare dell'umorismo all'americana, cinico e politicamente efficace, ha fallito in pieno: consigliamo a Zalone, pertanto di recuperarsi l'ultima puntata di uno show italiano censurato anni fa, Decameron (La 7, 2007) di Daniele Luttazzi. In cui, parlando di un fatto storico tragico come la guerra in Iraq, il comico romagnolo tenne in piedi un monologo di cinquanta minuti volgare, scorretto e trash. Eppure, divertente, intelligente, acuto ed effettivamente satirico. Cosa che Zalone è ben lungi dall'aver realizzato.
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