Quattro amici sperimentano la teoria di un filosofo danese per cui un costante e limitato stato di ubriacatura migliorerebbe la qualità della vita.
Quattro amici sperimentano la teoria di un filosofo danese per cui un costante e limitato stato di ubriacatura migliorerebbe la qualità della vita.
L'ultima opera di Thomas Vinterberg si apre con una citazione del connazionale Søren Kierkegaard, pensatore che viene definito il padre dell'esistenzialismo linda venire. Un altro giro è effettivamente una tragicommedia sulla disperazione connaturata alla condizione umana e sulla sua accettazione. Il tema dell'alcol è il pretesto drammatico per una favola catartica a tratti spietata ma intrisa di confortante umanità. Le premesse narrative avrebbero potuto condurre il film nella direzione della commedia demenziale o della facile morale sulle scelte di vita e la sobrietà: il primo merito del racconto è proprio evitare entrambi gli estremi, diventando una parabola tanto incentrata su una storia di amicizia quanto su tematiche universali.
Il ricorso alla tematica del consumo di alcol come viatico per un discorso più ampio funge anche da satira per la società danese entro cui è ambientato il film.
Non è casuale nemmeno che tutti e quattro i protagonisti siano uomini prossimi alla mezza età e appartenenti alla media borghesia, single oppure in posizione di passività e impotenza all'interno dei rispettivi consessi familiari. Fra le interpretazioni degne di nota, al di fuori della Danimarca, si segnala quella del critico Roy Menarini per cui l'alcol indicherebbe l'intero sistema capitalista, al quale non si può rinunciare ma i cui eccessi sono deleteri. Altri vi vedono una metafora sulle dipendenze. Più probabilmente, in linea con l'interpretazione del film come racconto filosofico, il senso ultimo può essere spiegato parafrasando Italo Calvino da Le città invisibili (1972): ogni essere umano ha il proprio inferno, entro cui scovare e tenere in vita «ciò che inferno non è».
La sceneggiatura, scritta da Vinterberg con Tobias Lindholm (già collaboratore per Il sospetto, 2012), si caratterizza fin da subito per la struttura analitica, con tanto di scritte e dati in sovrimpressione a mimare l'esperimento cui si sottopongono i quattro amici. Questo aspetto, nello svolgersi della narrazione, viene tuttavia meno assieme ad alcuni snodi logici e narrativi. Dopo un avvio magistrale del racconto, dove i conflitti dei singoli personaggi vengono ben evidenziati, la tenuta e il ritmo perdono in più punti di coerenza. Lo stesso tema della ricerca scientifica perde di sistematicità. La trama si riprende dal funerale di Tommy, evento tanto drammatico quanto trattato con spiazzante accettazione, fino al catartico finale che è forse il punto più alto, per significato e cinematografia, dell'intero film. Al di là di alcune debolezze di trama, tuttavia, la sceneggiatura ha i suoi punti di forza nel trattamento dei personaggi e dei loro rapporti e nella buona commistione fra umorismo (più amaro che esplicito) e componente tragica. In generale, inoltre, è lodevole la leggerezza e la fruibilità dell'opera che non rinuncia a una certa autorialità. Il finale, nel suo essere tutt'altro che risoluto, può lasciare perplessi quanto aprirsi alle interpretazioni.
Dal punto di vista registico il realismo, figlio in parte di Dogma 95, si nota nei movimenti di camera a mano e nel ricorso a primi piani eloquenti. Molto buona la fotografia a tratti livida di di Sturla Brandth Grøvlen, in perfetta linea con il carattere del personaggio principale. Come anticipato, la sequenza finale si distacca anche stilisticamente da tutto quanto l'ha preceduta, trasformandosi in uno spettacolo visivo in cui la cinepresa, dinamica e ariosa, segue in long take i movimenti di Mads Mikkelsen. Proprio a quest'ultimo, che già in passato aveva dimostrato la propria affinità con il regista, si deve buona parte della riuscita attoriale del film: sulle sue spalle sta la carica più emotiva e drammatica del racconto. Riuscite e affiatate anche le prove degli altri comprimari, in un misto opportuno di pietà, tristezza e ironia.
Un altro giro non è il film più coraggioso, né quello più sperimentale o compatto, di Vinterberg e non sono mancate le critiche da parte di chi si aspettava maggiore incisività. È però sorprendentemente equilibrato e, stanti i suddetti difetti di tempistiche e coerenza, efficace nella sua portata emotiva.
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