La storia dell'ascesa politica di Dick Cheney, che dal 1969 ai giorni nostri ha influenzato, rimanendo nell'ombra, buona parte delle controverse misure governative in America e nel mondo.
La storia dell'ascesa politica di Dick Cheney, che dal 1969 ai giorni nostri ha influenzato, rimanendo nell'ombra, buona parte delle controverse misure governative in America e nel mondo.
Dopo la sperimentale docu-commedia economica La grande scommessa (2012), per la quale ha vinto l'Oscar alla miglior sceneggiatura non originale, Adam McKay torna a scrivere e dirigere un film che, alternando i toni leggeri all'indagine storica, svela il cuore oscuro della politica americana. La sua regia travolgente, precisa, scanzonata riesce a drammatizzare alla perfezione il soggetto prettamente biografico senza mai annoiare. Complice l'espediente del narratore distaccato e ironico, i numerosi joke meta-cinematografici, come il finto epilogo a tre quarti del film, e il gustoso black humor che riesce a trasformare i reali problemi cardiaci del protagonista in una gag ricorrente.
La sceneggiatura segue uno schema classico del romanzo popolare, quello in cui un guitto senza valore arriva a ricoprire le alte sfere dello Stato. Fatta eccezione per l'inizio, che racconta in maniera forse troppo affrettata la gioventù di Cheney, la storia prosegue in modo preciso ed esaustivo dal punto di vista storico, senza mai sfociare nel documentario vero e proprio ma adottando i ritmi della finzione narrativa:
la trasformazione inquietante del protagonista, condotta a colpi di intrighi e tradimenti, non lascia spazio a buchi narrativi o momenti di noia.
Chiaramente l'intenzione di coprire un arco narrativo di quasi cinquant'anni, prestando attenzione a fatti grandi e meno grandi della vicenda, causa a tratti una certa frenesia nel racconto: in effetti l'evoluzione psicologica di Cheney è fin troppo rapida, seppur efficace. Buona anche la connessione mostrata fra vita pubblica e privata di Cheney, con il conflitto drammatico fra le due figlie di opposti ideali e il ruolo da vera e propria lady Macbeth della moglie. Dialoghi ben scritti e sempre sul filo del sarcasmo, forse meno arditi rispetto a La grande scommessa, dove la scommessa vera e propria era spiegare la crisi economica a un pubblico di non economisti.
Il cast risulta all'altezza. Christian Bale si riconferma grande trasformista, grazie al trucco da Oscar della squadra di Greg Cannom che ha un curriculum non da poco: quattro statuette dal 1993 a oggi e titoli quali Dracula di Bram Stoker (Francis Ford Coppola, 1992), Mrs Doubtfire (Chris Columbus, 1993) e Il curioso caso di Benjamin Button (David Fincher, 2008). Al netto del trucco, però, è la straordinaria mimica di Bale a creare una maschera perfetta del potere, a metà fra quelle di un padre severo e di un inquisitore spietato. Di contro, Cheney è ingombrante da interpretare e a volte Bale sembra quasi costretto, nei movimenti fisici, dal suo stesso personaggio. Si segnalano poi le interpretazioni di Carell, ottimo nel calarsi nella parte dell'americano potente e arrogante, e del caratterista Sam Rockwell nei panni di un Bush esilarante, più vicino alla caricatura de I Griffin che al personaggio reale.
Il montaggio risulta infine dinamico e adeguato alle scelte di sceneggiatura. Vice prosegue l'ormai riconoscibile discorso stilistico ed etico di McKay, in bilico fra il documentario impegnato di Michael Moore e la grande commedia, con la capacità non scontata di alternare i registri narrativi mantenendo il prodotto finale nel complesso solido e compatto.
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